il Gerba: Headline Post

sabato 29 settembre 2007

DA CHIRAC A BLAIR, TUTTI GLI SCANDALI DI CORRUZIONE

Più della metà degli europei sono convinti che le mazzette o gli abusi di potere siano pratiche diffuse tra i politici. E non hanno affatto torto. State a vedere.
Non ha neanche fatto in tempo a lasciare l’Eliseo, ché subito l’ex Presidente Jacques Chirac è ricaduto nella morsa della giustizia. Il 14 settembre prossimo i magistrati daranno il loro verdetto nell’ambito dell’inchiesta aperta dopo la scandalo sui fondi illeciti a favore del partito Rpr (Rassemblement pour la République). Motivo del processo: diversi funzionari sarebbero stati assunti dal Comune di Parigi nel periodo in cui Chirac ne era a capo ma poi avrebbero in realtà lavorato per l'Rpr. L’ex Presidente francese, interrogato dai giudici, rischia di essere condannato per ricettazione di fondi pubblici e abuso di potere. Neanche l’allora primo ministro Dominique de Villepin sembra cavarsela molto bene: viene indagato per la vicenda Clearstream, il falso dossier che doveva calunniare il troppo aspirante presidente Nicolas Sarkozy. Villepin è sospettato di aver tentato di incastrare il rivale in uno scandalo finanziario per screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica durante la corsa alle presidenziali. Il domicilio e i suoi uffici di Parigi vengono perquisiti a fine luglio 2007 e gli viene vietato di incontrare le altre persone implicate nel caso Clearstream, come Jacques Chirac che si è già rifiutato di testimoniare davanti al giudice «su fatti avvenuti o appresi» durante il suo mandato.


Il curriculum del Cavaliere

In Italia Silvio Berlusconi vanta un ricco carnet di processi per le accuse più incredibili. Corruzione, legami con la mafia, finanziamento illegale ai partiti politici, evasione fiscale, tangenti alla Guardia di Finanza, falso in bilancio, traffico di droga. Tuttavia l’uomo più ricco d’Italia è sempre riuscito a cavarsela nonostante la gravità dei numerosi capi d’imputazione. La maggior parte dei casi riguardano la sua azienda Fininvest. Ripetutamente condannato in prima istanza, è sempre stato scagionato o in appello grazie alla prescrizione. Per tutelare i suoi interessi, durante il suo lungo passaggio a Palazzo Chigi, il Cavaliere ha fatto approvare diverse leggi ‘su misura’, come la depenalizzazione del falso in bilancio.

Favoritismo all’inglese

In Gran Bretagna Tony Blair è stato interrogato per ben tre volte consecutive dalla polizia in merito allo scandalo delle onorificenze concesse ai maggiori finanziatori del partito laburista in cambio di denaro. Nel luglio 2006 Lord Levy, tesoriere del partito laburista e amico intimo dell’ex inquilino di Downing Street, viene arrestato e subito dopo rilasciato sotto cauzione. Anche l’ex consigliere di Blair, Ruth Turner, viene interrogato da Scotland Yard. Tuttavia Blair ha sempre dichiarato di non aver agito illegalmente poiché non c’è nulla che vieta ai dirigenti politici di proporre al proprio partito dei candidati che hanno «concesso servizi al partito stesso».

Sussidi illegali in Polonia

Il vizio della corruzione non sembra risparmiare neanche l’Europa dell’Est, dove lo scorso luglio il leader del partito polacco populista Samoobrona (Autodifesa), Andrzep Lepper, viene silurato dal primo ministro Jaroslaw Kaczinski in seguito ad accuse di corruzione. Il dirigente di Samoobrona, anche ministro dell’Agricoltura, verrà coinvolto in un grande scandalo di tangenti. Il Ministero dell’Agricoltura, inoltre, avrebbe fatto beneficiare illegalmente alcune zone rurali di sussidi Ue. Ma al momento il coinvolgimento di Lepper non è stato ancora provato.

Una Commissione sotto il fuoco dei sospetti

Gli alti funzionari europei non sono da meno. Il 15 marzo 1999 la Commissione presieduta da Jacques Santer, si vede costretta a dimettersi collettivamente in seguito a delle affermazioni di frode riguardanti alcuni dei suoi membri, tra i quali la francese Edith Cresson e lo spagnolo Manuel Marin. Le critiche si concentravano sulla cattiva gestione della Commissione. L'11 luglio 2006, Edith Cresson viene riconosciuta colpevole di favoritismo dalla Corte Europea di Giustizia.

FONTE: http://www.cafebabel.com/

USA/CLIMA, IL DOSSIER OSCURATO

1 Febbraio 2007 New York.
Poco piu’ di un anno fa, Drew Shindell, uno scienziato che lavora alla Nasa, ha completato uno studio sul cambiamento del clima in Antartica e lo ha intitolato ‘’La fredda Antartica potrebbe riscaldarsi rapidamente in questo secolo’’. Ma quanto lo studio e’ arrivato alla Casa Bianca, il suo titolo e’ improvvisamente diventato ‘’ Gli scienziati studiano i cambiamentio di clima in Antartica. ‘’Ho pensato che , con un titolo cosi’ annacquato, il rapporto non avrebbe interessato nessuno’’, si e’ lamentato martedi sera Scindell in una deposizione di fronte al Congresso. A preoccuparsi che la presentazione dello studio non fosse troppo esplicita era stato, molto probabilmente, Phil Cooney, un ex lobbista per l’industria petrolifera che George Bush aveva chiamato a fare il capo dello staff al White House Council on Environmental Quality e che ora lavora per la Exxon. A Parigi, giusto oggi, l’Intergovernmental Panel on Climate Charge pubblichera’ il rapporto compilato da oltre duemila scienziati di tutto il mondo e che concludera’ che il 90 per cento del riscaldamento del clima e’ dovuto alle emissioni di ossido di carbonio. In Africa, il nuovo segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha discusso ieri con Achim Steiner, capo dell’UN Environment Programm, l’organizzazione a settembre di summit speciale sui cambiamenti del clima al Palazzo di Vetro. In alcuni stati americani, come la California, le misure per limitare le emossioni dei gas responsabili dell’’’effetto serra’’ sono gia’ diventate o stanno per diventare leggi. Perfino Bush, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, e’ stato per la prima volta costretto ad ammettere che esiste un problema di ‘’global warming’’. Di fronte alle notizie che testimoniano la preoccupazione di tutto il mondo per un fenomeno che mette tutti in pericolo, l’immagine che emerge da Washington e’ per molti versi inquietante.Nelle udienze che si sono svolte martedi di fronte alla commissione per la riforma del governo della camera, diretta dal democratico Henry Waxman, e’ emersa infatti l’immagine di una Casa Bianca che di cambiamenti di clima per anni non ha voluto sentir parlare e che non ha avuto nessuno scrupolo a censurare, in maniera piu’ o meno esplicita, le conclusioni dei ricercatori che lavorano per il governo. Nei rapporti scientifici, e soprattutto nelle versioni degli stessi rapporti destinate ad essere divulgate sulla stampa, le parole, ‘’effetto serra’’ e riscaldamento della terra scomparivano quasi sempre, per lasciare il posto a formule blande e dubitative. Quando l’Union of Concerned scientists ha fatto un’inchiesta e intervistato circa 1600 dei suoi membri, i risultati sono stati illuminanti. 150 dei circa 279 ricercatori che hanno risposto al sondaggio hanno lamentato le pesanti intrusioni dei politici nei risultati del loro lavoro. ‘’I collaboratori dell’amministrazione hanno mostrato un interesse crescente nel controllare il flusso delle informazioni che riguardavano i cambiamenti di clima, in modo da minimizzare la percezione che la comunita’ scientidfica non fosse d’accordo con la linea politica dell’amministrazione sull’argomento’’, ha testimoniato di fronte ai legislatori Rick Piltz, un ex funzionario dell’US Climate Change Science Program. Stufo delle continue censure, Piltz ha sbattuto la porta e creato un gruppo per controllare il comportamento del governo . ‘’Se uno studioso sa che quello che scrive dovra’ passare al vaglio della Casa Bianca’’, ha raccontato, ‘’finisce inevitabilmente per autocensurarsi’’. Le devastanti testimonianze degli scienziati, e’ ovvio, non dipingono soltanto un’amministrazione impegnata a difendere con ogni mezzo la sua decisione di non sottoscrivere gli accordi di Kyoto e di non imporre alle industrie americane una limitazione delle emissioni, ma anche un’amministrazione pronta a celare e offuscare le conclusioni dei suoi stessi dipendenti. Adesso, anche per Bush i tempi sono in parte cambiati. Nancy Pelosi ha gia’ in preparazione tre nuovi progetti di legge sui cambiamenti di clima. E malgrado la resistenza della Casa Bianca, il Council on Environment Quality ha dovuto promettere a Waxman che migliaia di pagine di documenti saranno consegnate. A Bush, e’ ovvio, resta sempre il diritto di veto. ‘’Senza una seria azione per ridare integrita’ alla scienza del governo federale, non saremo pronti ad affrontare le sfide che ci aspettano’’, gli ha pero’ricordato la studiosa Francesca Grifo della Union of Concerned Scientists.

Gianna Pontecorboli

FONTE: http://www.lettera22.it/

domenica 23 settembre 2007

L'ERA DEL PETROLIO POTRA' MAI FINIRE?

Questa situazione crea problemi ai produttori di materie plastiche, alle aziende di trasporti ma non solo; pensiamo infatti a tutto il sistema economico che gira intorno al petrolio utilizzato, oltre che come combustibile e carburante, per realizzare i prodotti di plastica, il poliestere con cui si confezionano molti degli abiti che indossiamo, la moquette su cui camminiamo e poi sedie, computer, scatole, cerotti, ecc. ecc. La produzione, secondo la Association the Study of Peak Oil, è arrivata da tempo al culmine del potenziale produttivo o poco ci manca e ci stiamo ormai inevitabilmente avviando ad una crisi a livello mondiale. Crisi che dovrebbe perlomeno destare una certa preoccupazione da parte dei nostri governanti e che, nell'attuale situazione si necessiterebbe di un'accurata ricerca per trovare metodi per produrre energia in maniera alternativa. Le proposte conosciute ai più sono solo l'idrogeno, il biodiesel, l'energia solare o eolica che, a nostro avviso, non possono essere l'unica risposta alla crescente domanda di energia a livello mondiale. In particolare, destano non poca preoccupazione le conseguenze dal punto di vista geopolitica: il mondo si trova ad essere sempre più dipendente dal medioriente petrolifero-, un'area politicamente instabile che potrebbe creare non pochi problemi.
Bisognerebbe riprogettare le nostre città, la nostra agricoltura ed il nostro modo di vivere, ma questo non è possibile senza una imponente pressione politica mondiale. Ognuno di noi può dare il suo contributo ed impegnarsi per migliorare la situazione attuale: come per esempio ridurre i consumi di energia elettrica ed incoraggiare gli altri a fare altrettanto, usare l'auto solo quando sia necessario, passare a fonti energetiche rinnovabili. Acquistare prodotti locali per limitare il consumo dovuto a trasporti. Dobbiamo impegnarci a cambiare lo stile di vita a cui siamo troppo bene abituati…
Però è molto più facile che i consumatori scendano in piazza per consumare di più piuttosto che si facciano delle manifestazioni a favore del risparmio energetico e della economizzazione. Anzi, i dati degli ultimi sondaggi rivelano che la domanda tende ad aumentare e che sia maggiore dell'offerta, quindi crea inevitabilmente un aumento sempre maggiore del prezzo del petrolio.
Di tutto ciò non se ne occupa nessun media, viene data la notizia dell'aumento del petrolio o della benzina, ma molto timidamente, tanto ormai non ci fa più caso nessuno. I giornalisti non approfondiscono più la notizia… forse perché non fa più audience? Operai del settore petrolifero sono stati uccisi in Arabia Saudita, oleodotti e piattaforme sono stati distrutti in Iraq, la Shell ha smarrito il 23% delle sue riserve e ovviamente, le compagnie petrolifere stanno ottenendo profitti record. Ecco perché chi ha il dovere di fare qualcosa non lo fa, per pura e semplice avidità, fame di potere, interessi economici dei grandi produttori di petrolio, come il presidente degli Stati Uniti d'America. Soltanto che il petrolio non è una fonte inesauribile, ovvero non si rinnova, non durerà in eterno quindi per il bene comune ci auguriamo che si mettano da parte gli interessi disonesti e che si faccia qualcosa di veramente concreto in merito.


Fonte: www.topsecret.naturalia.net

L'EQUITA'

L'equità è una situazione conforme a principi di giustizia, in particolare nel confronto tra individui in condizioni analoghe (equità orizzontale) o in condizioni diverse (equità verticale). Nell'uso corrente equità è usato come sinonimo di "giusto" (ad es. giudizio equo, compenso equo, ecc.), ma più precisamente l'equità indica un giudizio comparativo, vale a dire una situazione "giusta" nel confronto tra due individui (o gruppi, società, etc.). Se si confrontano due individui considerati analoghi per tutti gli aspetti rilevanti della situazione, si parla di equità orizzontale (ad es. è equo lo stesso compenso per le stesse prestazioni). Se si confrontano due individui considerati diversi nella situazione data, si parla di equità verticale (ad es. è equo un compenso maggiore per uno sforzo maggiore). L'equità nell'ambito della società è una questione estremamente complessa e al tempo stesso molto sentita, che tocca il campo economico e politico, ma che ha radici nei fondamenti filosofici, religiosi o ideologici di una data società. Il sistema politico in genere è chiamato ha realizzare i criteri di equità che emergono dalla società, ma questo compito non è sempre agevole. Nei sistemi politici democratici si è affermato il principio che è equo ciò che è conforme alle "regole del gioco", una volta che tali regole sono state fissate prima che una data situazione si presenti. Ma questo principio si limita a spostare il problema al campo delle regole, vale a dire alla questione se un determinato "gioco" sociale sia retto da regole eque e quindi accettabili prima di parteciparvi. Il problema dell'equità è particolarmente acuto nel campo economico, e riguarda soprattutto la distribuzione del reddito e/o della ricchezza , ossia la cosiddetta equità distributiva. I paesi nei quali si crea una forte disuguaglianza tra chi ha molto e chi ha poco reddito (ricchezza) sono giudicati iniqui. Allo stesso modo, sono giudicate inique le enormi disparità economiche nel mondo. Sono giudizi corretti, e come intervenire?
Il grado di equità di un sistema economico è una questione molto complessa e controversa, per due principali ragioni tra molte. Secondo principi generalmente accettati, il giudizio di equità deve essere riferito alle "regole del gioco" del sistema stesso. Il caso emblematico è quello del "gioco economico" che è oggi più diffuso al mondo, cioè il mercato. Il mercato, per sua natura, è fondato sul meccanismo della concorrenza, attraverso la quale viene stimolato l'interesse personale a dare il massimo di sé per ottenere un beneficio individuale. Se questa è la prima regola del gioco, come sostiene ad esempio il filosofo americano Robert Nozick (Stati Uniti, 1939-2003), allora bisogna accettare che i premi individuali alla fine del gioco possano essere anche molto diversi. Quindi il mercato non può garantire l'uguaglianza delle condizioni economiche, ma non può di per sé essere giudicato iniquo. Questa visione mette l'accento sulla equità del processo, cioè è iniqua solo la ricchezza accumulata violando le regole del gioco. Siccome è generalmente accettato che l'equità deve essere sia orizzontale (ad es. lo stesso compenso per lo stesso sforzo) sia verticale (ad es. maggior compenso per uno sforzo maggiore), le differenze economiche tra individui sono inique solo se non sono giustificate da differenze di merito. Questa visione, ricollegandosi al tema delle regole del gioco, sottolinea che il principio di equità richiede la uguaglianza delle condizioni di partenza, ma non quella delle condizioni di arrivo.
Il criterio dell'equità ha avuto e ha una influenza profonda sulla definizione dei compiti di politica economica dei governi. Il liberismo classico del XIX secolo ha prodotto l'idea dell’equità di processo, e quindi che il compito del governo sia solo quello di garantire che la competizione economica si svolga in maniera corretta (ad es. impedendo il formarsi di monopoli e concentrazioni di potere economico). Le correzioni successive di tipo riformista e socialdemocratico hanno introdotto ulteriori e più ampi criteri dell'intervento pubblico, come l' uguaglianza dei punti di partenza, affinché tutti siano nelle condizioni migliori per partecipare alla competizione economica; le politiche redistributive, cioè a favore di una maggiore uguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza, quando i livelli inferiori risultano socialmente intollerabili o lesivi della dignità umana.


Fonte: www.utopie.it/

IL BENESSERE

Il concetto di benessere ha una posizione di primo piano nel rapporto tra economia e etica. Si tratta di un concetto molto complesso e controverso, sia sul piano teorico, sia su quello della sua misurazione, sia su quello dei compiti delle autorità politiche. Esiste un consenso pressoché generale nella cultura del mondo occidentale moderna nell'idea che il fine ultimo, e pertanto il metro di giudizio, dell'economia, della politica e dell’organizzazione sociale sia il benessere di ogni individuo e della società. La Costituzione americana, stilata alla fine del XVIII secolo, dichiara che i cittadini hanno "diritto alla felicità", presupponendo quindi che lo Stato abbia il dovere di realizzare questo diritto o di fare in modo che i cittadini possano realizzarlo. Va ricordato che questa idea è nata con la rivoluzione filosofica (illuminismo) ed economico-politica del XVIII secolo, e che essa rappresenta una svolta radicale rispetto al pensiero dominante nei secoli precedenti. Secoli nei quali il compito richiesto allo Stato e al Sovrano era stato quello di realizzare un ordine sociale giusto, secondo criteri fissati da princìpi assoluti, in gran parte di natura teologica, totalmente indipendenti dai valori degli individui. Al contrario, il criterio del benessere presuppone la centralità dell'individuo e dei suoi valori soggettivi. Sul piano teorico, vi sono quattro questioni fondamentali:* che cosa determina il benessere individuale (problema del contenuto del benessere);* chi, e con quali mezzi, può o deve mettere ciascuna persona nelle condizioni di ottenere ciò che le crea benessere;* quali limiti possono essere imposti alla ricerca del benessere individuale;* quale relazione esiste tra il benessere del singolo e quello della società.
La ricerca della soluzione di questi quesiti occupa il pensiero filosofico, economico e politico degli ultimi due secoli. La loro complessità nasce dal presupposto stesso della moderna teoria del benessere, vale a dire la centralità dei valori soggettivi dell'individuo. Se il giudice ultimo di ciò che è bene per sé è l'individuo stesso, come possono altri individui, e con quale diritto, decidere che cosa determina il benessere individuale? E come è possibile confrontare il benessere di individui diversi, che hanno preferenze e valori diversi? Per esempio, nel decennio 1970-80 alcuni studiosi, nel proposito di rispettare la dimensione strettamente soggettiva del benessere, hanno criticato radicalmente l'uso sistematico del contenuto del benessere occidentale come metro di valutazione e di azione per i paesi delle altre parti del mondo.
Il problema di quali siano i mezzi più idonei per la realizzazione del benessere è altrettanto complesso e controverso. La teoria liberista intende dimostrare che il sistema di mercato è il mezzo più idoneo, in quanto perfettamente coerente con il principio soggettivista: date le risorse economiche a disposizione di ciascun individuo, il mercato consente a ciascuno di realizzare il proprio benessere personale producendo, comprando e vendendo i beni preferiti [Vilfredo Pareto (Italia, 1848-1923), Léon Walras (Francia, 1834-1910), Kenneth J. Arrow (Stati Uniti, 1921)]. La forza teorica di questo risultato sta nel fatto che esso prescinde totalmente da giudizi di valore esterni all'individuo, e per questa via esclude la legittimità di interventi o di norme nella sfera del benessere da parte di autorità anteposte all'individuo come lo Stato o la Chiesa. Tuttavia sia in sede teorica che storica sono emersi numerosi fattori che possono impedire al mercato di conseguire adeguati livelli di benessere individuale e sociale, rendendo necessari interventi correttivi o diverse forme organizzative della vita economica. La stessa teoria liberista ammette che la distribuzione dei beni realizzata dal mercato può non essere conforme a giudizi di valore extra soggettivi comunque presenti nella società, come quello di equità (ad es. mantenere differenze tollerabili tra ricchi e poveri, garantire a tutti capacità e opportunità) oppure può mancare di fornire beni di natura collettiva come i beni pubblici (ad es. sicurezza) o i beni meritori (ad es. istruzione, salute, ambiente). Da questo punto di vista, la realizzazione del benessere richiede che il mercato sia affiancato o sostituito da altri strumenti, tra cui tornano in campo norme e interventi dei poteri pubblici [Amartya Sen (India, 1933), Joseph E. Stiglitz (Stati Uniti, 1943)].
Nessuno dei criteri di benessere disponibili è pienamente soddisfacente o esente da critiche. Tuttavia va sottolineato che non è pensabile di poter fare a meno di un criterio di valutazione dei sistemi economici (vedi sistema economico) e delle politiche economiche. Sul piano operativo e degli interventi a favore dello sviluppo sono stati elaborati principalmente tre criteri di misura del benessere:* i criteri quantitativi effettivi, che presuppongono che il benessere dipenda essenzialmente dalla quantità di beni e servizi effettivamente utilizzati da un individuo (ad es. il consumo e i bisogni primari);* intendono misurare i mezzi che un individuo ha a disposizione per realizzare il proprio benessere, senza entrare nel merito di come l'individuo impiega questi mezzi (ad es. il reddito o la ricchezza ;* i criteri qualitativi, i quali cercano di allargare la valutazione del benessere ad aspetti non solo economico-quantitativi (ad es. capacità e opportunità, e sviluppo umano);* i criteri relazionali, i quali prendono in considerazione la posizione dell'individuo nella società e non solo il suo benessere individuale assoluto (ad es. equità).

ECONOMIA ED ETICA

L’economia, diversamente da altre scienze, è legata sia alla teoria della razionalità sia all’etica. Essendo l’etica rilevante per l’economia è difficile tenere separati i problemi metodologici che hanno per argomento il carattere dell’economia dai problemi valutativi che riguardano le scelte individuali e le loro condizioni e conseguenze. In una visione ortodossa, l’economia è una scienza puramente positiva nettamente distinta dalla politica e dall’etica e l’economia normativa non diviene altro che l’applicazione dell’economia positiva all’esplorazione di problemi che sono d’immediata rilevanza valutativa. In realtà è difficile fare certe distinzioni l’economista non può essere estraneo alla morale e utilizzare l’economia come semplice tecnica.
Gli economisti, per poter fornire strumenti tecnici alla politica, devono collegare la teoria economica ai concetti morali che sono impiegati dai politici. Per far questo devono essere in grado di orientarsi in tematiche quali i bisogni, l’equità, le opportunità, la libertà e i diritti. L’economia positiva potrebbe essere separata dalle proposizioni valutative, ma gli economisti positivi sono influenzati dai propri valori morali. Nella teoria della razionalità le scelte di un soggetto sono determinate dalle sue preferenze, ma ciò non esclude che le preferenze siano orientate da principi morali. Il carattere dell’economia normativa è determinato sia dall’economia positiva che dalla razionalità, ma è errato identificare il benessere unicamente con la soddisfazione delle preferenze data la difficoltà di dare giudizi di valore secondo i quali si ritiene che persone che sono in situazioni simili godono dello stesso benessere.
Secondo le teorie anarco-capitalistiche i diritti naturali (cioè diritti che non dipendono dalle loro conseguenze) assicurano l’autonomia individuale. La giustizia consiste nel rispettare i diritti. Secondo Nozick un risultato è giusto solo se nasce dalla giusta acquisizione di ciò che si possedeva o dal trasferimento volontario di ciò che si possedeva giustamente. La giusta acquisizione è quella che non viola alcun diritto, e i trasferimenti sono volontari solo nel caso che nessuna limitazione delle scelte individuali nasca da violazione dei diritti: “La giustizia è una questione di titolo valido e dipende dalla storia reale, non dal quadro dei risultati che dalla storia risulta”. Solo il bisogno di rettificare ingiustizie passate giustifica la ridistribuzione. Le considerazioni riguardanti il benessere non giustificano mai alcuna interferenza con le libertà individuali, poiché la funzione dei diritti per Nozick non è di massimizzare il benessere, ma di assicurare la libertà e di permettere agli individui di perseguire i loro progetti personali.


BIRMANIA: LA RIVOLTA DEI MONACI

Lo scrive il sito della rivista Irrawady. Incidenti tra esponenti del clero buddista e le forze dell'ordine a Sittwe, nell stato orientale dell'Arakan (vedi mappa). Manifestazioni anche a Pegu, Rangoon e altre zone del paese.
Monaci in rivolta a Sittwe, nell'Arakan State dispersi con i gas. A Pegu almeno 1500 monaci hanno preso parte a una manifetazioen anti governativa. A Botataung Township, Rangoon diverse centinaia di monaci hanno marciato da diversi monasteri sino alla pagoda di Sule blindata dalle forze di sicurezza. Altre manifestazioni in altre zone del paese. Gli unici incidenti di cui si notizia sono quelli di Sittwe.Testimoni oculari citati dall'emittente britannica Bbc avrebbero disperso con lacrimogeni l'ennesima manifestazione di monaci nella città di Sittwe (già Akyab), capoluogo dello Stato costiero di Arakan, nella parte occidentale della Birmania. Sittwe, una cittadina di poco meno di 200mila abitanti, è situata su un'isola alla confluenza dei fiumi Kaladan, Myu e Lemyo.Diversi giorni fa altri incidenti con i monaci si erano verificati a Pakokku, 500 chilometri a Nord di Rangoon, dove centinaia di monaci buddisti hanno preso in ostaggio nel loro monastero una ventina di membri delle forze di sicurezza birmane in seguito alla repressione di una protesta contro la giunta militare per l'aumento dei prezzi.

Il sito della rivista Irrawady
Vai al sito della Bbc
Guarda una mappa ampia del paese delle pagode
Fonte: www.lettera22.it

CONFLITTI DIMENTICATI 3: BIRMANIA

UN PO' DI STORIA: La Birmania, ex colonia britannica, ottenne l'indipendenza il 4 gennaio 1948, costituendosi come Unione Federale Birmana e il 18 giugno 1989 prese il nome di Myanmar. Il generale Ne Win, il 2 marzo 1962 con un colpo di stato prese il potere, instaurando una dittatura militare. Nel 1988, dopo aver duramente represso le manifestazioni contro il governo, lasciando sul terreno più di tremila morti, una nuova giunta militare assunse il potere. Il Consiglio per il Ripristino dell'Ordine e della Legge dello Stato (SLORC) diede inizio a una durissima repressione, attuata per mezzo di torture, esecuzioni sommarie e arresti di massa contro gli attivisti politici. Due anni dopo indisse libere elezioni per la formazione di un'Assemblea costituente. La schiacciante vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), che riuscì a ottenere ben 392 seggi su 485, indusse però i militari a invalidare le elezioni e a mettere fuori legge i partiti e i movimenti d'opposizione, con il conseguente arresto di tutti i dirigenti della Lnd. La leader della Lega Aung San Suu Kyi, l'anno successivo fu anch'essa arrestata e quindi costretta per sei anni agli arresti domiciliari. Per la sua strenua lotta contro il regime militare di Yangon, nel 1991 ottenne il premio Nobel per la pace. Il paese è allo sbando, sconvolto da 50 anni di conflitti interni, sia etnici che politici. I primi riguardano i movimenti indipendentisti delle etnie minoritarie Karen e Shan e Wa, contro cui il governo combatte commettendo genocidi e deportazioni di massa. La posta in palio qui è il controllo dei territori al confine con la Thailandia, ricchi di piantagioni d'oppio, e il controllo del narcotraffico. Solo dal 1996, quando la lotta si è intensificata, si contano migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati in Thailandia e Bangladesh. Drammatico il problema delle mine anti-uomo disseminate nelle zone di conflitto. Frequenti anche gli scontri al confine tra gli eserciti di Birmania e Thailandia, che accusa il governo di Yangon di essere pienamente responsabile del massiccio traffico di droga verso il proprio territorio. Il 6 maggio scorso la cinquantaseienne Aung San Suu Kyi, dopo 20 mesi di arresti domiciliari è stata rilasciata, ma non sarà facile ottenere un sostanziale cambiamento politico in tempi brevi. Le confuse modalità della sua liberazione indicano che nessun accordo, per quanto riguarda la sua libertà di movimento e le attività politiche della sua Lnd, è stato firmato col governo militare del suo paese e questo potrebbe costituire un problema in un immediato futuro. Inoltre, l'attuale atteggiamento del regime non inspira fiducia sul suo impegno ad avviare una fase di transizione, che conduca il paese verso la democrazia. Molti birmani in esilio sono convinti che il governo non abbia intenzione di dividere il potere e che il rilascio di Suu Kyi sia legato al ripristino degli aiuti stranieri, necessari per risollevare l'economia del paese, danneggiata dalle pesanti sanzioni inflitte da parte della comunità internazionale a causa delle continue violazioni dei diritti umani e della partecipazione al traffico mondiale di eroina (di cui la Birmania è uno dei primi produttori mondiali). Non poche e gravi insidie si annunciano per l'opposizione, logorata e sconfitta da arresti e minacce, sfociate in una diaspora degli esponenti più impegnati divisi tra dubbi e contrasti. Suu Kyi, dopo che la giunta militare birmana le ha permesso di riprendere le sue attività politiche, nella sua prima apparizione in pubblico, ha indicato, tra le priorità, la liberazione di 800 prigionieri politici dell'Lnd, tra cui 17 parlamentari eletti nel 1990, anno in cui vinse le elezioni in Birmania, ma i militari non le hanno mai concesso di governare. Suu Kyi, anche quando fu liberata nel 1995, dopo i sei anni di arresti domiciliari nutriva grandi speranze di portare la Birmania verso un processo di democratizzazione; presto però, andarono tutte deluse: le fu impedito di lasciare la capitale e il suo partito fu dichiarato fuorilegge. Stavolta potrebbe essere diverso, adesso, a differenza del 1995, c'è un processo politico in atto e la leader del Lnd è nel bel mezzo di questo processo e fino a quando ci resterà avrà bisogno dei militari, come loro hanno bisogno di lei. Gli osservatori ritengono che Suu Kyi ha accettato di negoziare con i generali perché non aveva altro mezzo per contrastare il loro potere, dal momento che tengono sotto controllo la popolazione da 14 anni, con uno dei più grossi eserciti dell'Asia e un'efficiente polizia segreta. I birmani hanno una grande fiducia in Suu Kyi, ma consapevoli che il processo di riconciliazione non sarà breve, temono che anche stavolta si tratti di una falsa apertura da parte di uno dei regimi più repressivi dell'Asia.
Marco Cochi



venerdì 21 settembre 2007

CONFLITTI DIMENTICATI 2: ABKHAZIA

Abkhazia, regione annessa alla Georgia nel 1930. Fin da allora è stata attraversata da un forte sentimento separatista, fomentato anche dalla rivalità etnica tra abkhazi e russi da una parte e georgiani dall'altra. Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, il separatismo abkhazo si arma per ottenere l'indipendenza dalla Georgia (che successivamente, nel '91, diverrà a sua volta indipendente dall'URSS). Fino a quel momento Tiblisi non ha reagito alla minaccia separatista. Lo ha fatto solo dopo che le stesse autorità dell'Abkhazia votarono nel luglio del '92 a favore dell'indipendenza. Il neonato esercito georgiano venne mandato a presidiare Sukhumi, la capitale dell'Abkhazia, e iniziò la guerra. I partigliani abkhazi dei "Fratelli dei Boschi" e delle "Legioni Bianche" massacrarono centinaia di georgiani residenti nella regione, e centinaia di migliaia furono costretti ad abbandonare i loro villaggi per fuggire in Georgia. La Russia post-comunista non è rimasta neutrale in questo conflitto, parteggiando per i separatisti abkhazi, al fine di impedire il progetto di Tiblisi di costruire - facendolo passare per l'Abkhazia - un metanodotto per portare sul Mar Nero il gas naturale del Mar Caspio. Nel settembre del '93 i guerriglieri abkhazi appoggiati da mercenari dell'esercito russo hanno conquistato Sukhumi, cacciando le forze georgiane dalla regione ed espellendo poi tutti i civili georgiani rimasti. Nel '94 una forza di pace russa si stanziò al confine tra Abkhazia e Georgia per evitare scontri, sancendo così il dato di fatto. Alla fine del '94 l'Abkhazia si dotò di una Costituzione indipendente e di un Presidente della repubblica, mai riconosciuto da Tiblisi. Nel '98 sono riesplosi combattimenti tra partigiani abkhazi ed esercito goergiano. A farne le spese, ancora una volta, i civili georgiani, uccisi a centinaia. La situazione è calma da allora, ma sempre tesissima. Tiblisi è certa che la Russia, che appoggia l'Abkhazia, non mancherà di provocare nuovi scontri per riaccendere il conflitto con la Georgia, che Mosca, tra l'altro, ultimamente accusa di dare asilo ai guerriglieri separtisti ceceni.

A questo punto la domanda è: cosa succede oggi?
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CONFLITTI DIMENTICATI 1: CECENIA

Con l'indipendenza della Cecenia nel 1991 la Russia aveva perso il controllo su un'area di enorme importanza strategica, in quanto ricca di giacimenti petroliferi e di gas naturale e soprattutto attraversata da importanitissimi oleodotti e gasodotti. La sua riconquista, anche per non perdere un importante avamposto nell'Asia centrale (sempre più in mano a leadership mususlmane filoccidentali), era un imperativo per Mosca. Le sue truppe invasero la Cecnia nel 1994, ma la resistenza delle milizie guidate da Basayef non venne piegata. Nel 1996 i russi presero atto della sconfitta, costata loro migliaia di vittime, e si ritirarono. 100mila i morti ceceni. Il nuovo premier russo Putin, voglioso di rivincita, reinvade la Cecenia nell'ottobre del 1999. Il pretesto è che i ceceni appoggiano gli indipendentisti islamici in Dagestan, altra repubblica strategica ancora sotto il controllo di Mosca. Gli attacchi russi sono questa volta violentissimi. La capitale Grozny viene bombardata fino alla distruzione. L'aviazione russa utilizza anche armi chimiche e le truppe di terra commettono atroci violenze contro la popolazione civile. I ribelli ceceni resistono nella parte meridionale del Paese, dove ora si concentrano le operazioni belliche delle forze armate russe.

A questo punto la domanda è: che cosa succede oggi?
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RIFLESSIONI SULL'ALTERITA'

In un mondo in cui le parole relazione e integrazione sembrano essere i contenitori semantici di uno sviluppo interculturale della socialità, pare opportuno, per comprendere il senso di un progetto di convivenza dei popoli, affrontare il problema dell’alterità.
Tale problema prima di essere una questione teoretica è per noi una questione culturale, in quanto il significato e il senso del vocabolo “altro”, a noi tramandato dall’antichità, ha influenzato il pensiero occidentale e il suo modo di fare cultura.
La parola “altro”, prima di indicare l’alter–ego socioculturale in accezione positiva, è stata usata per discriminare “l’altro uomo” al di fuori di una tradizione consolidata. L’esempio classico sono i Greci che definivano barbari i popoli che “semplicemente” adottavano diversi usi e costumi.
Ogni popolo, nel suo divenire storico, si è sempre configurato come una razza, come una stirpe, come erede di miti, in altre parole come un complesso movimento di specificazione culturale che ha trasformato il “totem” in “tradizione” (dal potere basato sulla religione magica si è passati al potere basato sull’istituzione).
Ogni gruppo culturale si è così irrigidito nel suo sistema e “l’altro” gli è sempre apparso come il “diverso”. L’integrazione lascia qui il passo alla demonizzazione, alla razzizzazione dell’altro in quanto nemico che perde dignità morale ed il diritto all’esistenza.
Si arriva in questo modo alla legittimazione della violenza, alla ipostatizzazione del sacro opposta alla delegittimazione del profano; nasce il fondamento artificioso di ogni gruppo e si nota come ogni etnia prima e come ogni civiltà poi crede come autentica la propria interpretazione della realtà, dando vita a quel processo storico, ancora oggi in atto, di totalizzazione e di assimilazione della diversità.
Questa mistificazione dei rapporti intersoggettivi, dovuta all’originaria “ignoranza” dell’uomo, ha fatto si che l’interpretazione unidimensionale e metafisica del mondo portasse i popoli l’uno contro l’altro a causa di una oggettivazione inautentica della realtà, dovuta ad una interpretazione o comprensione errata dell’alterità.
“L’uomo” diventa così destino e limite interiore per “altri” uomini, per “altre” libertà, crea ordini costituiti che permettono l’accentramento del potere, sviluppa una praxis storica volta al dominio e forgia una cultura che tramanda miti grazie ai quali forza, virtù e coraggio diventano “icone” morali che subdolamente ispirano “venti di guerra”.
L’esempio pratico di quanto affermato fino ad ora è proprio il Mediterraneo in quanto spazio di incontro e di scontro tra diverse civiltà.
“Il Mediterraneo è un antico crocevia. Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando ed arricchendo la sua storia”.
[1] Sulle sue sponde diverse civiltà hanno raggiunto l’apogeo del loro sviluppo, altre, conquistate e sottomesse, hanno dovuto aspettare tempi migliori per poter essere attori attivi del loro destino.
La realizzazione di una convivenza in seno a tali territori multietnici è sempre stata difficile. Nel bacino, antica culla della civiltà, si mescolano culture diverse e religioni differenti tanto che non sembra possibile considerare questo mare come un “vero” insieme.
Le fratture culturali aperte in passato sono ancora impossibili da sanare, anche se purtroppo non si tratta più di una questione socioculturale ma anche e soprattutto di una questione geopolitica.
Interessi politici ed economici non possono tacere l’importanza di una integrazione pacifica e di una convivenza necessaria; basti pensare in questo senso ai confini tra Europa occidentale ed Europa orientale, tra Europa Mediterranea e mondo Arabo.
Sembra quasi inutile stare ad elencare le vicissitudini storiche che hanno diviso e unito arbitrariamente queste terre di confine; grandi stati a turno hanno esercitato la loro egemonia idealizzando il mondo come una scacchiera, dividendo i territori in zone di influenza.
Ma il globo non è una cartina geografica disegnata a tavolino per il benessere economico di pochi, bensì uno spazio abitato da uomini, abitato da persone degne di esistere al di là di tutti i fanatismi religiosi e dei freddi calcoli degli strateghi.
È per questo che il dibattito sull’alterità va promosso con convinzione, in quanto le fratture e le divisioni che oggi si vedono non sono altro che il retaggio di una storia che non si è mai configurata come storia dell’umanità bensì come storia delle civiltà.
Mentre quest’ultima rappresenta uno schema storico contraddistinto da conquiste, violenze e antagonismi, la prima vorrebbe essere il riflesso di una speranza futura di convivenze pacifiche e di collaborazioni economiche volte a sconfiggere la povertà e le guerre di interesse.


Alessandro Bucci

sabato 15 settembre 2007

LE FRONTIERE ETICHE DELLA COMUNICAZIONE

Che senso ha parlare di frontiere etiche della comunicazione? Che significa utilizzare il linguaggio in maniera strumentale?
Per rispondere a queste domande mettiamo a fuoco alcuni processi comunicativi. Prendiamo ad esempio quelli che presiedono alla codificazione di messaggi propagandistici e ideologici ad alla loro decodificazione da parte dei più.
A questo punto si deve comprendere che il linguaggio verbale e scritto è il vero tessuto che lega il nostro vivere storico. Da esso dipende la nostra percezione della realtà e il nostro immaginario collettivo.
È grazie alla parola, alla discussione, al dialogo, all’arte oratoria, alle testate dei giornali che si formano la nostre credenze, le nostre convinzioni, i nostri pensieri.
I detentori del potere mediatico, però, sono portati ad usare il linguaggio in maniera strumentale, a scapito della reale comprensione degli avvenimenti.
In tale cattiva abitudine comunicativa si perde di vista la verità dei fatti filtrando l’informazione con interpretazioni soggettive e faziose.
Il linguaggio diventa così, il più delle volte, uno strumento dispotico di fronte all’interlocutore sprovvisto di strumenti idonei di comprensione e decodificazione.
Allora i due bravi oratori o le varie cricche in lotta, che tutto vogliono fuorché accordarsi, usano il linguaggio per confutare le tesi degli avversari piuttosto che pervenire alla condivisione delle informazioni sulla realtà.
Notiamo che in tali formule comunicative è sempre presente una certa morale del potere, una abitudine primitiva divenuta ormai natura congenita.
Ciò non vuol dire, peraltro, che un uso etico e cooperativo del linguaggio non sia possibile.
Alla fine il linguaggio è pur sempre uno strumento, prima istintivo e poi convenzionale, nato con l’uomo e gli esseri viventi senzienti.
Il punto è che la storia dell’uomo lo ha forgiato come un fioretto pronto a scaramucce e travisamenti.
Una prova lampante di tali affermazioni è la nostra cultura politica volta a soggiogare con abili discettazioni retoriche la percezione dell’opinione pubblica.
Certamente quest’uso strumentale del linguaggio, sfociato nella civiltà dell’immagine, del consumo e dell’omologazione, non è il modo migliore di comunicare.
In ballo non c’è la vittoria di questi yenkee o di quegli anarchici, di questi “fascisti” o di quei “comunisti” bensì la responsabilità di creare una comunicazione efficace e giusta tra gli uomini, tra i pochi (detentori del potere mediatico) e i molti (opinione pubblica).
Ma purtroppo assistiamo quotidianamente ad un uso strumentale del linguaggio volto alla persuasione e alla conquista del consenso attraverso l’offesa dell’alterità.
L’uomo che per natura è un ego e quindi prepotente, nella sua convinzione di esser giunto ad uno stadio di alta civiltà, conserva il culto della forza sotto mentite spoglie: il culto dell’arte di ottenere ragione.
Ecco che il linguaggio diventa un organo dell’egoismo umano, indispensabile strumento per affrontare le discussioni con successo e potere. Ahimè, il tutto avviene per la vanità di avere ragione indipendentemente dal fatto di averla veramente.
Questa vanità è diventata ormai consuetudine e i nostri dirigenti, a tutti i livelli studiano, seguono corsi, e si specializzano nelle pratiche persuasive di comunicazione.Dopotutto che colpa ne hanno loro; è così che si conquista un uditorio, l’opinione pubblica, il rispetto, il consenso.
È contro quest’uso del linguaggio che bisogna scagliarsi.
Che la libertà di parola sia diventata libertà di mentire e travisare?
L’importanza di questa questione è lampante. Il discutere, la propaganda, la dialettica politica, la libertà di espressione e la comunicazione in generale, sono alla base della vita democratica di un paese.
L’uso dispotico e strumentale del linguaggio corrode le fondamenta di un regime democratico. Al posto della coercizione fisica di una dittatura, si sostituisce la persuasione subdola di un volto sereno che ostenta virtù democratiche e liberali. Lo vediamo sempre e ovunque nei dibattiti, nei discorsi e soprattutto in quei discorsi che demonizzano, che generano colpa.
Parlare, come abbiamo già detto, non è, come troppo spesso si ripete, comunicare: è sottomettere.
Il linguaggio come strumento dispotico di persuasione si basa su due punti: l’autorità dell’asserzione e la gregarietà della ripetizione.
Il leader afferma, i pappagalli ripetono e l’opinione pubblica si abitua. Ecco come nasce il consenso. Da un’opera di convincimento artefatta.
Per evitare che questo slittamento strumentale del linguaggio possa nuocere alla vita democratica del mondo bisogna recuperare una dimensione etica della comunicazione, tanto nella gestione dei mezzi mediatici quanto nella responsabilità della forma discorsiva e informativa.
La strada è lunga e il cammino è tortuoso. Quindi, gambe in spalla. Diamoci da fare!

Alessandro Bucci

LA REALTA' SECONDO GERBA

Il mio obiettivo è sempre stato quello di trovare, tra le sponde della nostra storia, un lido dimenticato, un porto sicuro per nascondermi ed ascoltare in silenzio il segreto del nostro divenire.
La mia brama di conoscenza era attratta semplicemente dalla possibilità di trovare una prova tangibile che potesse mettere in discussione tutto il mondo, il suo ordine costituito, le sue credenze, le sue verità di facciata.
Sicuramente molti prima di me, e magari molti a me contemporanei, si sono accaniti contro il cosiddetto sistema, un luogo comune per descrivere ciò che ci circonda, che ci educa, che ci costituisce in esistenza pubblica e privata.
Distinzione tra vita pubblica e privata che ci permette di comprendere come il nostro vivere con gli altri non sia libera scelta, o meglio, non è libera scelta il nostro crescere secondo le leggi di chi ci ha preceduti. In questo percorso a tappe che è la vita, alcuni dicono che si tratta di scegliere il male minore, molti non dicono nulla e agiscono, tanti altri sono all’oscuro di tutto.
L’unica verità obiettiva di questa nostra esistenza storica è che il più forte in ogni caso detta legge. Nulla di nuovo. Così è stato in passato, così è nel presente e probabilmente così sarà nel futuro.
Fino ad oggi la letteratura ci ha regalato solo utopie per ribaltare questa legge naturale che nel nostro processo di civilizzazione si è fatta legge sociale e ordine costituito immanente.
Le utopie sono ormai considerate mangime per i sognatori, per gli idealisti, questi avidi risparmiatori di forze che sembrano vivere al di fuori del mondo.
Tutto sembra già fatto, già conquistato, già regalato, sembra che la perfezione sia per essere raggiunta.
Se volessi carpire l’attenzione di chi vive all’ombra di un confine metropolitano, dovrei inventarmi qualcosa, promettere qualcosa, donare qualcosa…
Ma cosa si può promettere che non sia stato già promesso e mai donato?
La rivoluzione non ha più senso, le riforme sono contraffazioni esplicite, la politica è strumento di plutocrati che perseguono gli interessi della propria cricca, la religione ha ormai fatto il suo tempo, la scuola non è in grado di educare, la famiglia è smembrata, la natura deviata.
Non è pessimismo, ma semplice realismo.
In questo mondo dialogare significa soverchiare, convivere vuol dire competere, scegliere è la facoltà libera di un leone in gabbia.
L’uomo si è evoluto grazie alla guerra, alle devastazioni, agli stermini di massa.
È cresciuto brandendo un’ascia di guerra da una parte e predicando fratellanza, uguaglianza e tolleranza dall’altra.
Il nemico è sempre al di fuori del gruppo; il centro di potenza ha un solo obiettivo: distruggere ed omologare la diversità, ingoiare e digerire gli altri gruppi. Tutto ciò senza tener conto che essere uguali significa nascondere le differenze, dissimulare l’identità reale e vestire gli abiti di una farsa.
Discorsi scontati ma soprattutto inefficaci. Le nostre menti, i nostri corpi, i nostri sentimenti devono standardizzarsi, progredire in un unico sistema collettivo di compartecipazione al benessere apparente.
È questa la volontà di chi dirige le sorti del nostro pianeta.
Signori, se non ve ne siete accorti, l’utopia in questo mondo si è già realizzata. Il nettare propinato alle nostre vite consiste in oggetti e pensieri frivoli.
Fuggiamo dalla responsabilità del nostro esistere con gli altri nel mondo.
Ci affanniamo a riempire le nostre case di cianfrusaglie ma soprattutto ci compiacciamo di svuotare le nostre menti dalle riflessioni più impegnative e utili.
I nostri sensi, le nostre percezioni, le nostre rappresentazioni della realtà diventano sempre più parziali.
Confondiamo l’intelligenza con la furbizia, l’abilità con l’avidità, la bontà e la magnanimità con la persuasione e la retorica.
Sopraffare un debole significa dimostrare la propria forza, allearsi con il più forte vuol dire fare affari, illudere il popolo significa essere ottimi oratori.
È una mentalità perversa ma molto elementare.Eh già, viviamo ancora l’adolescenza della nostra specie!


Alessandro Bucci

UTOPIA

La terra insanguinata dall’odio degli arroganti potrà mai rinascere nello splendore di un giorno migliore?
Il cuore pulsante di chi sostiene le pene del mondo potrà mai vanificare le atrocità di chi semina morte e distruzione?
Le nostre azioni potranno mai convergere in un unico punto di raccordo?
L’opera d’arte della nostra esistenza tanto nel dare quanto nel ricevere è sempre un alternarsi di scambi imprecisi.
C’è chi prova a calcolarli ma di solito quest’ultimo è colui che predilige il profitto!
La piccola e flebile speranza è che un giorno tutti ci sveglieremo accaldati e accomodanti. Solo così potremo riconoscerci e collaborare.
Oh quale magnifica utopia!


Alessandro Bucci

Nella speranza che un giorno la guerra finisca