il Gerba: Headline Post

sabato 15 settembre 2007

LE FRONTIERE ETICHE DELLA COMUNICAZIONE

Che senso ha parlare di frontiere etiche della comunicazione? Che significa utilizzare il linguaggio in maniera strumentale?
Per rispondere a queste domande mettiamo a fuoco alcuni processi comunicativi. Prendiamo ad esempio quelli che presiedono alla codificazione di messaggi propagandistici e ideologici ad alla loro decodificazione da parte dei più.
A questo punto si deve comprendere che il linguaggio verbale e scritto è il vero tessuto che lega il nostro vivere storico. Da esso dipende la nostra percezione della realtà e il nostro immaginario collettivo.
È grazie alla parola, alla discussione, al dialogo, all’arte oratoria, alle testate dei giornali che si formano la nostre credenze, le nostre convinzioni, i nostri pensieri.
I detentori del potere mediatico, però, sono portati ad usare il linguaggio in maniera strumentale, a scapito della reale comprensione degli avvenimenti.
In tale cattiva abitudine comunicativa si perde di vista la verità dei fatti filtrando l’informazione con interpretazioni soggettive e faziose.
Il linguaggio diventa così, il più delle volte, uno strumento dispotico di fronte all’interlocutore sprovvisto di strumenti idonei di comprensione e decodificazione.
Allora i due bravi oratori o le varie cricche in lotta, che tutto vogliono fuorché accordarsi, usano il linguaggio per confutare le tesi degli avversari piuttosto che pervenire alla condivisione delle informazioni sulla realtà.
Notiamo che in tali formule comunicative è sempre presente una certa morale del potere, una abitudine primitiva divenuta ormai natura congenita.
Ciò non vuol dire, peraltro, che un uso etico e cooperativo del linguaggio non sia possibile.
Alla fine il linguaggio è pur sempre uno strumento, prima istintivo e poi convenzionale, nato con l’uomo e gli esseri viventi senzienti.
Il punto è che la storia dell’uomo lo ha forgiato come un fioretto pronto a scaramucce e travisamenti.
Una prova lampante di tali affermazioni è la nostra cultura politica volta a soggiogare con abili discettazioni retoriche la percezione dell’opinione pubblica.
Certamente quest’uso strumentale del linguaggio, sfociato nella civiltà dell’immagine, del consumo e dell’omologazione, non è il modo migliore di comunicare.
In ballo non c’è la vittoria di questi yenkee o di quegli anarchici, di questi “fascisti” o di quei “comunisti” bensì la responsabilità di creare una comunicazione efficace e giusta tra gli uomini, tra i pochi (detentori del potere mediatico) e i molti (opinione pubblica).
Ma purtroppo assistiamo quotidianamente ad un uso strumentale del linguaggio volto alla persuasione e alla conquista del consenso attraverso l’offesa dell’alterità.
L’uomo che per natura è un ego e quindi prepotente, nella sua convinzione di esser giunto ad uno stadio di alta civiltà, conserva il culto della forza sotto mentite spoglie: il culto dell’arte di ottenere ragione.
Ecco che il linguaggio diventa un organo dell’egoismo umano, indispensabile strumento per affrontare le discussioni con successo e potere. Ahimè, il tutto avviene per la vanità di avere ragione indipendentemente dal fatto di averla veramente.
Questa vanità è diventata ormai consuetudine e i nostri dirigenti, a tutti i livelli studiano, seguono corsi, e si specializzano nelle pratiche persuasive di comunicazione.Dopotutto che colpa ne hanno loro; è così che si conquista un uditorio, l’opinione pubblica, il rispetto, il consenso.
È contro quest’uso del linguaggio che bisogna scagliarsi.
Che la libertà di parola sia diventata libertà di mentire e travisare?
L’importanza di questa questione è lampante. Il discutere, la propaganda, la dialettica politica, la libertà di espressione e la comunicazione in generale, sono alla base della vita democratica di un paese.
L’uso dispotico e strumentale del linguaggio corrode le fondamenta di un regime democratico. Al posto della coercizione fisica di una dittatura, si sostituisce la persuasione subdola di un volto sereno che ostenta virtù democratiche e liberali. Lo vediamo sempre e ovunque nei dibattiti, nei discorsi e soprattutto in quei discorsi che demonizzano, che generano colpa.
Parlare, come abbiamo già detto, non è, come troppo spesso si ripete, comunicare: è sottomettere.
Il linguaggio come strumento dispotico di persuasione si basa su due punti: l’autorità dell’asserzione e la gregarietà della ripetizione.
Il leader afferma, i pappagalli ripetono e l’opinione pubblica si abitua. Ecco come nasce il consenso. Da un’opera di convincimento artefatta.
Per evitare che questo slittamento strumentale del linguaggio possa nuocere alla vita democratica del mondo bisogna recuperare una dimensione etica della comunicazione, tanto nella gestione dei mezzi mediatici quanto nella responsabilità della forma discorsiva e informativa.
La strada è lunga e il cammino è tortuoso. Quindi, gambe in spalla. Diamoci da fare!

Alessandro Bucci

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