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venerdì 21 settembre 2007

RIFLESSIONI SULL'ALTERITA'

In un mondo in cui le parole relazione e integrazione sembrano essere i contenitori semantici di uno sviluppo interculturale della socialità, pare opportuno, per comprendere il senso di un progetto di convivenza dei popoli, affrontare il problema dell’alterità.
Tale problema prima di essere una questione teoretica è per noi una questione culturale, in quanto il significato e il senso del vocabolo “altro”, a noi tramandato dall’antichità, ha influenzato il pensiero occidentale e il suo modo di fare cultura.
La parola “altro”, prima di indicare l’alter–ego socioculturale in accezione positiva, è stata usata per discriminare “l’altro uomo” al di fuori di una tradizione consolidata. L’esempio classico sono i Greci che definivano barbari i popoli che “semplicemente” adottavano diversi usi e costumi.
Ogni popolo, nel suo divenire storico, si è sempre configurato come una razza, come una stirpe, come erede di miti, in altre parole come un complesso movimento di specificazione culturale che ha trasformato il “totem” in “tradizione” (dal potere basato sulla religione magica si è passati al potere basato sull’istituzione).
Ogni gruppo culturale si è così irrigidito nel suo sistema e “l’altro” gli è sempre apparso come il “diverso”. L’integrazione lascia qui il passo alla demonizzazione, alla razzizzazione dell’altro in quanto nemico che perde dignità morale ed il diritto all’esistenza.
Si arriva in questo modo alla legittimazione della violenza, alla ipostatizzazione del sacro opposta alla delegittimazione del profano; nasce il fondamento artificioso di ogni gruppo e si nota come ogni etnia prima e come ogni civiltà poi crede come autentica la propria interpretazione della realtà, dando vita a quel processo storico, ancora oggi in atto, di totalizzazione e di assimilazione della diversità.
Questa mistificazione dei rapporti intersoggettivi, dovuta all’originaria “ignoranza” dell’uomo, ha fatto si che l’interpretazione unidimensionale e metafisica del mondo portasse i popoli l’uno contro l’altro a causa di una oggettivazione inautentica della realtà, dovuta ad una interpretazione o comprensione errata dell’alterità.
“L’uomo” diventa così destino e limite interiore per “altri” uomini, per “altre” libertà, crea ordini costituiti che permettono l’accentramento del potere, sviluppa una praxis storica volta al dominio e forgia una cultura che tramanda miti grazie ai quali forza, virtù e coraggio diventano “icone” morali che subdolamente ispirano “venti di guerra”.
L’esempio pratico di quanto affermato fino ad ora è proprio il Mediterraneo in quanto spazio di incontro e di scontro tra diverse civiltà.
“Il Mediterraneo è un antico crocevia. Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando ed arricchendo la sua storia”.
[1] Sulle sue sponde diverse civiltà hanno raggiunto l’apogeo del loro sviluppo, altre, conquistate e sottomesse, hanno dovuto aspettare tempi migliori per poter essere attori attivi del loro destino.
La realizzazione di una convivenza in seno a tali territori multietnici è sempre stata difficile. Nel bacino, antica culla della civiltà, si mescolano culture diverse e religioni differenti tanto che non sembra possibile considerare questo mare come un “vero” insieme.
Le fratture culturali aperte in passato sono ancora impossibili da sanare, anche se purtroppo non si tratta più di una questione socioculturale ma anche e soprattutto di una questione geopolitica.
Interessi politici ed economici non possono tacere l’importanza di una integrazione pacifica e di una convivenza necessaria; basti pensare in questo senso ai confini tra Europa occidentale ed Europa orientale, tra Europa Mediterranea e mondo Arabo.
Sembra quasi inutile stare ad elencare le vicissitudini storiche che hanno diviso e unito arbitrariamente queste terre di confine; grandi stati a turno hanno esercitato la loro egemonia idealizzando il mondo come una scacchiera, dividendo i territori in zone di influenza.
Ma il globo non è una cartina geografica disegnata a tavolino per il benessere economico di pochi, bensì uno spazio abitato da uomini, abitato da persone degne di esistere al di là di tutti i fanatismi religiosi e dei freddi calcoli degli strateghi.
È per questo che il dibattito sull’alterità va promosso con convinzione, in quanto le fratture e le divisioni che oggi si vedono non sono altro che il retaggio di una storia che non si è mai configurata come storia dell’umanità bensì come storia delle civiltà.
Mentre quest’ultima rappresenta uno schema storico contraddistinto da conquiste, violenze e antagonismi, la prima vorrebbe essere il riflesso di una speranza futura di convivenze pacifiche e di collaborazioni economiche volte a sconfiggere la povertà e le guerre di interesse.


Alessandro Bucci

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Nella speranza che un giorno la guerra finisca