il Gerba: Headline Post

lunedì 29 ottobre 2007

USA, RUSSIA E L'IRAN

Ormai lo scambio di messaggi, variamente inquietanti e in crescendo, tra Washington e Mosca, sta diventando quotidiano. Gli Stati Uniti accentuano la pressione su Teheran, mettono nel mirino i guardiani della rivoluzione iraniana, li definiscono terroristi, comunicano che chiunque abbia a che fare con loro e con le loro banche sarà messo all'indice dalle autorità americane.
E' come se, diciamo, un Paese dichiarasse suo nemico non il governo di un altro Paese ma le sue truppe speciali, o la sua polizia politica. Mossa davvero singolare, invero, e inedita nella storia moderna. Tecnicamente equivale a dire che il governo americano si riserva il diritto di colpire selettivamente i centri di comando dei Pasdaran. Un altro passo di una escalation sempre più evidente. Vladimir Putin - sempre più nelle vesti di protettore dell'Iran - risponde subito da Lisbona: gli Stati Uniti «stanno creando ai nostri confini una minaccia», che è, «dal punto di vista tecnologico e militare simile a quella che nel 1962 si creò con i nostri missili a Cuba». E' una replica asimmetrica, quella del russo Putin, perchè gli Stati Uniti le minacce le indirizzano su Teheran, ma il significato è transitivo: i missili li mettete in Polonia e nella Repubblica Ceca per contrastare quelli (eventuali) iraniani, ma quei missili saranno ai nostri confini e, quindi, «costituiscono una minaccia» per la Russia. E' vero, aggiunge Putin, che Russia e Usa non sono più nemici, ma, se Washington «non tiene conto delle nostre preoccupazioni» sappia che noi interpreteremo le loro mosse come una minaccia, cioè come un «innalzamento del livello di crisi». E il riferimento a Cuba indica un livello di allarme molto alto, perchè in quel lontano 1962, adesso lo sappiamo, Kennedy e Krusciov vennero portati letteralmente sull'orlo della guerra atomica. Certe similitudini non vengono scelte a caso e, di certo, Putin non improvvisa quando le usa. Il tutto avviene pochi giorni dopo le dichiarazioni di George Bush, che agitavano lo spettro di una Terza Guerra Mondiale, logicamente atomica. Alle quali Putin aveva risposto nientemeno che da Teheran, dov'era in corso l'incontro dei Paesi del Mar Caspio, Russia, Kazakhstan, Turkmenia, Azerbaijan e Iran. Nessuno tra noi - aveva detto Putin stringendo la mano al Presidente Ahmadinejad - appoggerà o acconsentirà di essere base per l'uso della forza. Avvertimento al vicino Azerbaijan, troppo amico di Washington, ma anche a Washington direttamente: non provateci, non siamo più nel 2001 e l'Iran non è l'Afghanistan. E aveva annunciato un poderoso programma di riarmo strategico-nucleare da qui al 2015, compresi tre nuovi sommergibili nucleari, i più temibili perchè i meno parabili da qualunque sistema di protezione. C'è una spiegazione sola per questo roteare di sciabole verbali: Mosca ha sentore (probabilmente anche informazioni) che Bush sta pensando seriamente ad un attacco militare contro l'Iran, e lancia avvertimenti in serie. In caso di attacco sull'Iran, è chiaro, Putin non muoverà un dito, anche perchè sarebbe davvero lo scenario dell'apocalisse. Ma fa sapere che questa eventualità muterebbe radicalmente il quadro delle relazioni mondiali.


di Giulietto Chiesa , Megachip – da La Stampa

giovedì 25 ottobre 2007

LA CASTA DEI GIORNALI

E poi vogliono mettere il bavaglio ai blog !!!
“La storia dei contributi diretti e indiretti all'editoria è antica, ma da ieri è possibile per la prima volta andare a spulciare l'elenco dettagliato di chi li riceve e dei relativi stanziamenti”. Era il 4 gennaio del 2006 e solo due quotidiani italiani aprivano un‘operazione trasparenza sul mondo dell'editoria e sui finanziamenti di Stato ai giornali di partito (ma non solo) destinata, nei mesi immediatamente successivi, a scoperchiare il vaso di pandora della distorsione del mercato della carta stampata.
Venivano alla luce sovvenzioni a pioggia, spesso elargite a giornali semiclandestini, attori di un teatrino di inganni ed imposture a discapito del cittadino contribuente. Circa 700 milioni di euro in un anno che finiscono in mille rivoli, sotto forma di contributi diretti o indiretti, nelle tasche di grandi gruppi editoriali così come nelle borse di finti giornali di finti movimenti e di cooperative fasulle, rimpolpando gli utili degli azionisti di grandi testate in attivo e alimentando, in questo modo, una sorta di sottogoverno e di clientele. Una vera e propria rapina di risorse pubbliche, una distorsione del mercato che, tuttavia, fa anche capire la mortificazione in cui versa la stampa italiana costretta, per ragioni di pagnotta dei soliti “amici degli amici”, ad essere grancassa e specchio della “casta” del potere politico. Qualche tempo dopo, intorno a marzo 2006, un'inchiesta televisiva di Report di Raitre, svelerà all'ignaro mondo dei lettori dei quotidiani italiani l'esistenza di un mondo di giornali poco venduti e omologati tra di loro. Soprattutto finanziati dallo Stato, dalla casta dei partiti, per mere questioni di propaganda politica e destinati a tutto tranne che a informare davvero il cittadino-lettore ed elettore: informazione “embedded” non destinata alle edicole ma alle scrivanie dei poteri forti del Paese. Ce lo ricorda Beppe Lopez, cronista di razza e scrittore, autore di un' inchiesta scomoda, “La casta dei giornali”, per “Stampa Alternativa”. E dove si dà conto, per la prima volta in modo organico e puntuale, di come l'organizzazione della “casta” della politica trovi nell'editoria asservita, propagandistica e - soprattutto - sovvenzionata dai soldi pubblici, il proprio braccio armato. Titolava, infatti, il Qn il 5 settembre di un anno fa: “Giornali loro, soldi nostri. Basta avere un movimento politico o anche solo due parlamentari alle spalle per accedere ai contributi pubblici”. Fra i beneficati avevano l'onore di una fotina Feltri (5.371.151 euro), Ferrara (3.511.906), Polito (2.179.597) e naturalmente Antonio Padellaro, direttore de L'Unità, il giornale percettore del contributo più alto (6.817.231). “Nei due giorni successivi alcuni quotidiani - scrive Lopez nella sua inchiesta - aprendo una crepa nel muro di reticenza e di complice silenzio eretto e scrupolosamente invalicato negli anni dalla quasi totalità dei giornali, sviluppava una breve campagna d'informazione, con un taglio quasi di contro-informazione, sullo scandalo dei contributi: “160 milioni di euro a editori che si nascondono spesso dietro fantomatici movimenti politici” e “una legge del 2000 (poi modificata) che concede prebende a coop fatte ad hoc”. Incipit di uno dei servizi? “Il bello è che tra loro ci sono alcuni dei campioni del liberismo economico, editori che da anni chiedono, pretendono la libera impresa rispetto all'antico Stato assistenziale. E ricordano, giustamente, che il rischio fa parte del gioco. Gente con le idee chiare e col portafoglio zeppo di milioni di euro, frutto delle elargizioni”. Conclusioni: “E' il grosso delle elargizioni che, in tempi di carestia, andrebbe rivisto. Per dare un segnale al Paese, alla gente che deve arrivare a fine mese senza contributo pubblico”. Parole che potrebbero essere state scritte ieri godendo di una maggiore attualità di allora. Perché nulla è cambiato. Anzi. Ecco perché Beppe Lopez ha avuto buon gioco nel rispolverare questo scandalo che non trova giustizia (la casta tende a tutelare se stessa e i suoi vassalli del quarto potere), stavolta elencando pedissequamente le elargizioni statali ai giornali di partito, alle finte cooperative, ai grandi gruppi editoriali, citandoli tutti contributo per contributo, provvidenza per provvidenza. E annunciando – senza tema di smentite – che il prossimo, possibile “V-Day”, avrà come imputati eccellenti proprio “la casta dei giornali”, intimamente legata a quella politica e quindi non meno colpevole dello sfascio del sistema. Ma si farebbe un errore a giudicare il dotto pampleth di Lopez come un' operazione furbesca, dettata dall'apertura di un mercato di denuncia sull'onda dell'emozione (e dell'impressione) causata dal forte seguito avuto da Grillo e dalle sue piazze. Lopez, in realtà, con il libro denuncia l'assenza di un mercato reale dell'editoria. Che in quanto sovvenzionata e tutelata, rimane asfittica rispetto alla necessità di innovarsi guardando anche alle nuove tecnologie come risorse e non come avversari da contrastare per tutelare il proprio orticello. Oggi la “casta dei giornali” è solo lo specchio fedele di quella politica, autoreferenziale ed elitaria, piegata sul mantenimento di interessi di bottega e, dunque, mai veramente libera, perché il potere si autoalimenta impedendo al mercato di espandersi. In ultimo, Lopez fornisce anche qualche idea su come uscire da questa spirale scandalosa, come quella di rivedere le attuali norme per favorire, attraverso le sovvenzioni pubbliche, la nascita di nuovi soggetti editoriali che aprano il mercato a nuove voci, secondo regole rigide e mai a tempo indeterminato. Ne trarrebbe giovamento la cultura e, soprattutto, la democrazia. Per ora è proprio questo che la “casta dei giornali”, su mandato dei padroni e dei padrini, si guarda bene dal fare.

di Sara Nicoli - da www.canisciolti.info

domenica 21 ottobre 2007

ATTESA

Aspettando un giorno di dolce tepore usiamo coltri invernali per costruire i nostri alibi.
Aspettando un'eclissi notturna, rubiamo il tempo alle nostre vite.
Aspettando il filtro dell'innocenza, viaggiamo alla ricerca del mediocre benessere: quello del corpo.
Ora vorrei tanto farvi vedere,
un filo invisibile lega le nostre vite, un sole artificiale abbaglia i nostri occhi.
E' solo tempo di capire...

Tratto da "Un Mostruoso Fiore di Carne", opuscolo atipico pubblicato nel 2003
Alessandro Bucci

UN MOSTRUOSO FIORE DI CARNE

Chi può essere un mostruoso fiore di carne se non l'uomo?
Fiore, perchè meglio simboleggia, con la sua semplice bellezza, i momenti di dolcezza e passione che lo hanno contraddistinto in tutte le sue rinascite d'animo, mostruoso e di carne perchè meglio simboleggia la sua corruttibilità e la sua decadenza.
Una decadenza prescritta dalla brama del possedere che porta con sé il destino dell'umanità.
In questo crescere e combattere per affermarsi, che pare essere la storia dell'uomo, c'è proprio il polline del nostro mostruoso fiore di carne.
Esso inebria chiunque si posi per cibarsene, in quanto il suo effetto a lungo andare può provocare smania di grandezza. Giocando con il potere si diventa potenze, diventando tali, si agisce discriminando.
La potenza deve mantenere la propria egemonia e nel far ciò deve annullare o comunque circoscrivere ogni possibilità di minaccia.
E' questo il gioco che si richiude su di noi. Ogni essere incarnato si crede un centro di potenza e in quanto tale deve affermarsi a scapito dell'altro.
Il mostruoso assume i giusti connotati.

Tratto da "Un Mostruoso Fiore di Carne", opuscolo atipico pubblicato nel 2003
Alessandro Bucci

sabato 20 ottobre 2007

MISSILE USA DISTRUGGE FATTORIA IN QATAR

Un missile Patriot ha distrutto una fattoria, in Qatar dopo essere stato sparato accidentalmente da una vicina base militare statunitense nel paese.
Nessuno è rimasto ferito nell'incidente e le forze armate americane hanno detto di aver avviato un'indagine per comprendere cosa sia successo realmente.
"Stiamo indagando" ha detto Holley Silkman il portavoce presso la base Usa in Qatar.
"E' stato solo un incidente" afferma Bryan Whitman, il portavoce del Pentagono. Secondo i rapporti, il missile è esploso in aria mentre i detriti sono caduti oltre la fattoria, che si trova nel nord del deserto.
Un veicolo della polizia militare del Qatar staziona all'ingresso della fattoria mentre ai reporter è stato rifiutato l'accesso al sito.
Il Patriot è un sistema missilistico utilizzato dai militari americani e da molti dei suoi alleati compreso Israele.


La fonte di questa notizia è Al Jazeera e si è deciso di pubblicarla in quanto non evidenziata da alcuna testata giornalistica occidentale.

martedì 16 ottobre 2007

L'AUTO-GOL DELLA TURCHIA

La decisione turca di dare il via libera a un’operazione oltre-confine, come possibile rappresaglia per una risoluzione sul genocidio armeno adottata la scorsa settimana dalla Commissione affari esteri della Camera Usa, nel lungo termine colpirà le riforme economiche e politiche della Turchia, isolandola dal resto del mondo. Lo affermano analisti turchi e occidentali. L’immagine attuale che sta offrendo la Turchia – dai media al governo, fino ai militari – non è quella che deve prevalere nel senso comune se Ankara non vuole permettere che venga isolata dal mondo, dice un analista militare turco. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha detto venerdì scorso di essere pronto a rompere le relazioni con gli Stati Uniti per lanciare un’incursione nel nord dell’Iraq alla caccia dei terroristi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) fuorilegge. "Se viene scelta una tale opzione, qualunque sia il suo costo, sarà pagato. Potrebbero esserci dei pro e dei contro in una tale decisione, ma quello che conta sono gli interessi del nostro Paese", ha detto. Ci si aspetta probabilmente martedì che Erdogan chieda l’approvazione del Parlamento per lanciare gli attacchi contro il Pkk in Iraq. Allo stesso modo, la Turchia ha reagito sia con durezza che con emotività all’approvazione di una risoluzione da parte della Commissione per gli affari esteri della Camera Usa, il 10 ottobre, che ha bollato i fatti della prima guerra mondiale in territorio ottomano come “il genocidio degli armeni”. Nancy Pelosi, presidentessa della Camera dei rappresentanti Usa, ha fatto sapere la scorsa settimana che ha intenzione di inoltrare la risoluzione alla Camera al completo a inizio novembre. Una decisione turca di incrementare la lotta al Pkk, anche con un operazione oltre-confine, è arrivata un giorno prima dell’adozione della risoluzione da parte della Commissione. La mossa è arrivata in seguito all’uccisione di 13 soldati turchi nel sud-est, nei pressi del confine iracheno. Entrambi gli incidenti, arrivati uno dopo l’altro, hanno buttato benzina sulla già esistente frustrazione turca sull’irrisolta questione del terrorismo del Pkk, così come sulle accuse del genocidio armeno che hanno perseguitato la Turchia per circa novanta anni.

Lale Sariibrahimoglu - (Traduzione di Carlo M. Miele)
Per l'articolo completo vai su http://www.osservatorioiraq.it/

domenica 14 ottobre 2007

ALTERAZIONI POLITICHE

Si parte dall’assunto che la dialettica politica tra gli attori che si contendono gli elettori è in realtà una disputa e che essa può essere paragonata ad una discussione verbale. Ogni parte, infatti, cerca di prevalere sull’altro attraverso l’arte della persuasione a discapito della verità oggettiva di una affermazione.
Quindi: CHI DISPUTA NON LOTTA PER LA VERITA’ O PER IL BENESSERE COMUNE MA PER IMPORRE LA PROPRIA TESI CON MEZZI LECITI E ILLECITI.
Succede così che chi vince un confronto molto spesso lo deve non tanto alla buonafede della sua tesi quanto all’astuzia e alla destrezza con cui la sostiene. Tutto si riduce ad ottenere l’approvazione ed il consenso dell’uditorio e/o degli elettori tramite l’uso strumentale della dialettica.
Tanto nella politica quanto in una discussione sono importanti due fattori: la forma e i contenuti. Ad oggi i contenuti sono passati in secondo piano dato che la forma permette di piegare l’opinione al consenso.
Forse sarebbe meglio dire che oggi è arrivato il momento di mettere in luce questa ALTERAZIONE presente nell’uomo a causa del suo egoismo e della sua vanità.
La nostra società, poi, a carattere mediatico non ha fatto altro che alimentare questa alterazione. Infatti, i contendenti di una disputa televisiva o di un dibattito politico hanno perso di vista il motivo della loro discussione e badano solamente a difendere le proprie affermazioni e a rovesciare quelle dell’altro.
Dunque, non è la verità quello che conta bensì colpire l’avversario e difendersi. E’ evidente che un tal modo di fare politica è distruttivo e non porta a nulla di buono.
I nostri politici dovrebbero capire che di fronte non hanno un nemico ma semplicemente un collega con il quale cooperare.
BASTA CON LA DEMONIZZAZIONE DELL’ALTRO. È TEMPO DI COLLABORARE!!!


Alessandro Bucci

domenica 7 ottobre 2007

LA FABBRICA DEL NON SENSO

Per gran parte del XX secolo ormai trascorso, uno dei problemi che più agitavano le coscienze di studiosi e intellettuali che si dedicavano a osservare la società, era costituito del timore delle omologazioni forzose, dell’assenza di indipendenza che poteva scaturire dall’affermazione del capitalismo e del tardocapitalismo, dall’estensione delle logiche dell’economia del consumo e dalla fine della politica in senso dibattimentale e dialettico. La sparizione dell’individuo nel consenso generale, privato dello spirito critico, è un tema che, a vario livello, dalla Scuola di Francoforte a una certa sociologia americana (quella attenta di autori come Riesman e Wright Mills) fino a Foucault, si è costantemente manifestato. Oggi, nel XXI secolo, questo tema non ha perso di attualità e, in effetti, la tendenza alla massificazione e il timore del pensiero libero è una costante del genere umano, ma accanto ad esso si affianca anche la questione del non senso. La società complessa rischia di essere non solo una fabbrica del consenso, ma anche una fabbrica del non senso. Numerosi studiosi hanno rilevato questo problema: il percorso di vita di ciascuno nella tarda modernità non è più lineare, non ha più certezze: il sociologo Bauman ha diagnosticato questa condizione con ridondante lucidità in numerosi testi. E un filosofo come Galimberti va denunciando, da anni, questo problema del non senso, che attanaglia molte vite, provando ad affrontarlo non con la psicologia ma con la filosofia appunto.
L’origine di questo non senso che asfissia, però, sta non tanto o non solo nelle incapacità delle istituzioni, nelle difficoltà della storia, nella crisi della politica, nella trasformazione della sfera lavorativa, negli effetti perversi della globalizzazione sui processi di formazione del Sé. Magari l’origine del non senso sta anche in una generale condizione di presunzione di molti abitanti di questa epoca attuale. Si afferma tanto facilmente che ciascuno deve realizzarsi, deve potersi esprimere, deve valorizzarsi e intere scuole terapeutiche fanno di questi concetti un must. Aspirazioni certamente legittime e frutto del progresso politico faticosamente portato avanti dalla modernità più classica, pura e nobile. Ma, forse, questa attività di autoespressione non dovrebbe manifestarsi ex abrupto, ma dovrebbe essere la conseguenza di un periodo di riflessione, di maturazione, di esercizio su sé stessi, di riempimento di sé stessi con conoscenza e sensibilità. Solo con tali elementi le relazioni con se stessi e con gli altri possono sfuggire al non senso e acquisire una unicità, una specificità, un che di davvero irripetibile e fiabesco. Altrimenti cosa può esprimere ciascuno? Cosa si può tirar fuori da un recipiente vuoto? L’aria mefitica del suo nulla? O dobbiamo credere che, dietro questa esagitata necessità espressiva, vi sia il fatto che, oggi, tutti gli uomini siano artisti? Che questi decenni contengano la più alta concentrazione di artisti mai verificatasi nella storia dell’umanità? Magari è così, ma, una volta, si diceva che, perché qualcuno possa definirsi artista, deve passare qualche decennio dalla sua morte. Può darsi, tuttavia, che, nella vicenda postmoderna, il canone di riferimento sia più modesto. E, allora, si aprano le porte alla fiera di questo espressionismo senza acuti e benvenuti tutti nel deserto del reale, frutto splendente della fabbrica del non senso. Così è se vi piace. Sperando esista qualcuno cui spiace che così sia.


Francesco Giacomantonio

MUTUI: AUMENTA LA RICHIESTA DEL TASSO FISSO

Gli italiani scelgono sempre meno i mutui a tasso variabile e sempre più quelli a tasso fisso. Questa è la reazione del settore del credito agli aumenti dei tassi e alla crisi dei mutui subprime. Secondo i dati Assofin (Associazione Italiana Credito al Consumo e Immobiliare), nel primo semestre del 2007, i mutui a tasso fisso sono risultati il 51% del totale. Un salto notevole se confrontato con il 18% dello stesso periodo dell'anno scorso. E un altro dato significativo è il rallentamento della crescita delle erogazioni. Nel primo semestre 2006 crescevano del 21,1%. I dati sui primi tre mesi del 2007 parlano di aumento del 6,8%. Un raffreddamento dovuto all'aumento dei tassi per chi ha scelto il variabile (il parametro di indicizzazione Euribor è più che raddoppiato dal giugno 2005), ma anche all'effetto subprime. Un'altra conseguenza è poi il forte incremento delle richieste di rinegoziazione dei mutui (possibile grazie alle nuove norme del decreto Bersani). «Sono molti quelli che chiedono di rinegoziare le condizioni o di passare al tasso fisso perchè si sentono più sicuri» spiega Mauro Silvestri del gruppo Mps.
«La crisi di fiducia e di liquidità generate dalla crisi americana hanno comportato per le banche un aumento del costo di approvvigionamento», spiega Luciano Ambrosone, responsabile dell'Ufficio per i finanziamenti ai privati di Intesa SanPaolo. Un fatto che ha obbligherà gli istituti di credito ad aumentare il costo dei mutui.
Questo, secondo l'Adusbef, «smentisce clamorosamente le rassicuranti dichiarazioni di Bankitalia, Bce e Autorità monetarie secondo le quali la crisi dei mutui sub-prime non avrebbe avuto effetti sulle banche italiane». E secondo l'associazione dei consumatori bisogna prepararsi a «una ulteriore stangata su mutui e prestiti di circa 180 euro all'anno». L'Adusbef, che ha studiato il rapporto della Bce sul mercato del credito in Europa, è convinta che «nel quarto periodo dell'anno, ci sarà un'ulteriore riduzione nell'accesso al credito sia da parte delle stesse banche che dei consumatori».

Fonte: www.ilsole24ore.com

sabato 6 ottobre 2007

LIBERTA' ED ETICA

Riflettendo sul concetto di liberta’, comprendo che è difficile ingabbiare il suo significato in una sterile definizione. La storia ci insegna che la libertà è una conquista, un traguardo, un bene comune. Oggi grazie ad un percorso iniziato dagli antichi, siamo orgogliosi di affermare:
- sono libero di pensare secondo il mio punto di vista;
- sono libero di esprimere le mie opinioni;
- sono libero di operare le mie scelte;
- sono libero di agire secondo la mia volontà.
Ma noi uomini, è risaputo, non siamo esseri infallibili. La nostra cultura oscilla tra desideri e doveri, tra interessi faziosi e imperativi morali, tra ambizioni e buon senso.
Ecco che la libertà rischia di diventare un alibi. Può essere sventolata per prevaricare, per imporre il proprio volere, per plasmare il mondo secondo visioni totalizzanti. Per questo credo che la libertà sia un concetto limite. La libertà in sé tende a diventare libertà assoluta e, in quanto tale, attenuante di una volontà distorta.
La nostra condotta è mossa fondamentalmente dalla ricerca del piacere e della felicità. Il nostro ego anella ad essi per il proprio benessere individuale.
Così descritto l’uomo sembra paragonabile ad un fiume in piena che può spazzare tutto e tutti, pur di raggiungere il proprio obiettivo. Per questo ha bisogno di una diga, di un argine, di un freno. Nel momento in cui siamo diventati capaci di migliorarci attraverso il libero confronto, abbiamo compreso che esiste un bene superiore al benessere dell’individuo: la collettività.
L’individuo è libero fino a quando non arreca danno agli altri, fino a quando non nega l’altrui libertà di dissentire, fino a quando non lede l’integrità mentale e fisica del suo pari. Ecco perché la libertà è nulla senza un comportamento etico; un comportamento responsabile che crei equilibrio stabile tra uomo e alterità, tra individuo e società, tra governanti e governati, tra il forte e il debole.
Ognuno di noi ha diritto ed il dovere di esprimere la propria visione delle cose, di agire secondo i propri valori, ma nessuno può lontanamente pensare di utilizzare gli altri come strumenti per perseguire i propri fini; nessuno può ridurre un uomo libero ad oggetto.
È questo il confine sottile tra libertà ed oppressione; è questo il limite invalicabile che l’etica deve difendere.


Alessandro Bucci

DOSSIER GLADIO

Gladio è il nome di un'organizzazione clandestina di tipo "stay behind" ("stare in retroscena") promossa dai servizi d'informazione italiani e dalla NATO per contrastare un'eventuale invasione sovietica dell'Italia.
Malgrado Gladio sia propriamente utilizzato in riferimento solo alla "stay-behind" italiana (o, secondo alcuni, la principale e più duratura tra diverse stay-behind che operarono in Italia), il termine è stato applicato dalla stampa anche ad altre operazioni di tipo stay-behind. Durante la guerra fredda, quasi tutti i paesi dell'Europa occidentale organizzarono reti stay-behind sotto controllo NATO.

L'esistenza di Gladio, sospettata fin dalle rivelazioni rese nel 1984 dal membro di Avanguardia Nazionale Vincenzo Vinciguerra, durante il suo processo, fu riconosciuta dal Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti il 24 ottobre 1990, che parlò di una "struttura di informazione, risposta e salvaguardia". Gladio è stata accusata di aver tentato di influenzare la politica interna usando la strategia della tensione.

Lo scopo principale dell'Operazione Gladio era di contrastare una possibile invasione dell'Europa occidentale da parte dell'Unione Sovietica e del Patto di Varsavia attraverso sabotaggio e atti di guerriglia dietro le linee nemiche. La NATO temeva il fatto che l'Unione Sovietica possedesse un'ampia superiorità per potenza militare convenzionale, da cui l'Europa occidentale e la NATO non avrebbero potuto sperare di sconfiggere l'Armata Rossa in un conflitto diretto senza ricorrere all'uso delle armi nucleari. Le organizzazioni "stay-behind" della NATO rappresentavano una possibilità di combattere nel caso di una sconfitta militare dovuta alla supremazia militare dell'Unione Sovietica. Le sue cellule clandestine erano destinate a "stare nascoste" (stay behind in inglese, da cui il nome) in territori controllati dal nemico e comportarsi come movimenti di resistenza, conducendo sabotaggi, guerriglia e uccisioni. Vennero considerate altre forme di resistenza clandestina e non convenzionale, come le "operazioni false flag" (attentati e simili operazioni rivendicate sotto falsa bandiera per fomentare divisioni politiche), e attacchi terroristici.

La presenza di una struttura stay-behind in Italia risale al 1949, seppure con un nome diverso da Gladio. In una relazione del Comitato Parlamentare sui servizi segreti del 1995 si legge che:
« In base a quanto risulta dalle indagini giudiziaria è fuor di dubbio che in epoca precedente alla creazione di Gladio sia esistita un'altra organizzazione denominata "Duca", con le stesse finalità e struttura analoga, di cui sappiamo ben poco e che dovrebbe essere stata sciolta intorno al gennaio 1995 (ma in vari documenti acquisiti dall'Autorità giudiziaria si parla di organizzazione "Duca - Gladio").[4] »
Gladio viene costituita con un protocollo d'intesa tra il Servizio italiano e quello statunitense del 26 novembre 1956, nel quale però vi era stato un esplicito riferimento ad accordi preesistenti: nella relazione inviata dal presidente del Consiglio Andreotti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo e sulle stragi il 17 ottobre 1990 verrà segnalato che con quella intesa tra SIFAR e CIA erano stati "confermati tutti i precedenti impegni intervenuti nella materia tra Italia e Stati Uniti".
Nel giugno 1959 il Servizio segreto italiano entrò a far parte del "Comitato di pianificazione e coordinamento", organo di SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe) (si veda il documento desecretato). Nel 1964, del "Comitato clandestino alleato (ACC)", emanazione del suddetto Comitato di pianificazione e coordinamento e costituito tra paesi che intendevano organizzare una resistenza sul proprio territorio, in caso di aggressione dall'Est e, a quanto sembra, anche nell'eventualità di "sovvertimenti interni".
Il 24 ottobre 1990 Giulio Andreotti, capo del governo italiano, rivelò alla Camera dei Deputati l'esistenza di Gladio, che fu quindi la prima organizzazione aderente alla rete "stay-behind" ad essere resa pubblica. Oltre a prepararsi per una invasione sovietica, il ramo italiano avrebbe dovuto agire in caso di elezione in Italia di un governo comunista. Poiché l'Italia era la nazione in cui era più probabile l'elezione a mezzo di libere elezioni di un governo a guida comunista (il PCI raccolse, dal 1963 in poi, una percentuale sempre superiore al 25% del voto popolare, con punte del 34,4%, e alcune correnti della DC reputavano possibile un suo coinvolgimento nel governo), il ramo italiano di Gladio divenne anche la più grossa organizzazione "stay-behind" della NATO.
Quando l'esistenza di Gladio divenne di pubblico dominio venne pubblicato un elenco di 622 "gladiatori", ufficialmente tutti i partecipanti dalla fondazione allo scioglimento dell'organizzazione, ma da più parti questa lista è stata considerata incompleta, sia per il ridotto numero di operativi, ritenuto troppo basso rispetto ai compiti dell'organizzazione estesi in quasi 40 anni, sia per l'assenza nella lista di alcuni personaggi che da indagini successive (e in alcuni casi per loro stessa ammissione) avevano fatto parte dell'organizzazione.


FONTE: stralci da http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Gladio

Per approfondire:
http://www.geocities.com/Pentagon/4031/real.htm realizzato da un gladiatore
http://digilander.libero.it/infoprc/gladio.html realizzato da un appassionato dell'argomento

giovedì 4 ottobre 2007

LA SOCIETA' CRITICA DELLA TEORIA

Per gran parte del secolo ormai trascorso uno degli indirizzi sociologici, filosofici e, più in generale, culturali che hanno dominato e infervorato il dibattito intellettuale è stato quello della Teoria critica della società. Opera della cosiddetta Scuola di Francoforte, la teoria critica della società aveva i suoi alfieri principi in Horkheimer, Adorno, Marcuse che, nel loro approccio, propugnando un pensiero dialetticamente negativo, ponevano in discussione l’esistente e lottavano strenuamente, perché gli individui non perdessero la loro umanità nella società tecnologica e nelle logiche del capitalismo. In questo inizio del XXI secolo, epoca che, già da un po’, ha sancito il trionfo dell’individualismo e la fuga dalla politica, in cui l’indifferenza si fa strada, in cui le ideologie e le grandi narrazioni hanno ricevuto da Lyotard il certificato di morte, l’espressione teoria critica della società, forse, a qualcuno fa anche tenerezza. E non solo perché i disincantati uomini tardo moderni conoscono il monito sprezzante di Carl Schmitt, per cui chi dice umanità vuole ingannarti.
È curioso come, a volte, le espressioni possano capovolgersi svelando nuove interpretazioni; così oggi si può credere che al posto di una teoria critica della società, c’è, in molti ambiti, una società critica della teoria. In questi anni, cioè, la società è divenuta sempre più diffidente, indisponibile a pensare, ad avere il gusto per la teoria, per il sistema di pensiero e, soprattutto, essa si è abituata a non considerare affatto ciò come qualcosa di deleterio. Questo è certamente microscopicamente evidente nella realtà quotidiana, fatta di immediatezza e scarsa predisposizione per la ricostruzione e l’approfondimento, che diventano una scelta di alcuni e non un’esigenza per tutti, come testimonia l’evoluzione della tv che si distingue tra generalista e satellitare. Ma, anche nella vicenda intellettuale e accademica, questa avversione per la teoria è evidente. Sono rarissimi i casi, nelle scienze sociali degli ultimi decenni, di studiosi che hanno ancora il coraggio e la voglia di confrontarsi con la grande teoria. E l’affermarsi di un pensiero sempre più analitico e astorico in taluni ambiti di ricerca, scientifici e umanistici, è noto. È, forse, ormai il tempo del filosofo da marketing, che produce concetti usa e getta, che formula il suo pensiero nell’arida e asettica successione di slides per computer. Questa perdita del gusto della teoria forse dipende anche dalle degenerazioni che essa può avere. La società critica della teoria ha imparato, proprio dalla storia politica, sociale, intellettuale, del XX secolo, che i grandi sistemi di pensiero possono perdere il senso della realtà, possono essere i precursori di derive totalitarie: sfavillano ancora gli strali di Popper contro Platone, Hegel, Marx, nemici della società aperta; la società critica della teoria sa che una teoria troppo estesa rischia di non essere pratica, peccato gravissimo nell’era dei servizi; sa che una grande teoria si sbriciola di fronte alle andate di relativismo che, nel mare magnum, della modernità, si levano fragorose e minacciose. Nella vicenda della società critica della teoria, c’è, certamente in virtù di tutto questo, una certa saggezza, finanche una garbata saggezza. Ma il giusto buon senso che tiene lontani da un pensiero troppo esteso e distanti dal gusto per la grande teoria davvero è sempre segno di un equilibrio, solo quando sa fermarsi almeno un attimo prima della mediocrità. Altrimenti quella saggezza si trasforma in una triste vigliaccheria che, sopprimendo ogni capacità immaginativa, può privare chi la pratica, della coscienza di sé e dell’amore per gli altri.


Francesco Giacomantonio

martedì 2 ottobre 2007

COME SI SALVA L'AMBIENTE CON IL PROFITTO

I Ceo di tutte le multinazionali hanno un nuovo elemento da considerare nella loro agenda competitiva: la tutela ambientale. La tutela ambientale non più come vincolo, come insieme di target fissati da una qualche authority ostile e lontana, ma come obiettivo competitivo e, come tale, di profitto.
Molte imprese hanno cominciato a considerare il problema dell’impatto ambientale dei loro processi e prodotti già da parecchi anni. L’azione è stata mirata a sensibilizzare il consumatore sull’efficienza dei prodotti e sul risparmio reso possibile dalla razionalizzazione ecologica dei processi aziendali. Incalzati dalle legislazioni sovranazionali, i produttori hanno abolito le macchine più inquinanti, sostituendole con alcune dall’impatto ecologico più blando e hanno fornito garanzie circa la classe energetica dei propri prodotti.
Per alcuni pionieri si è trattato di andare ben oltre. Aziende leader nel mercato globale, come Siemens, Starbuck’s e IBM hanno affrontato il tema ecologico, trasformandone i presupposti categoriali: non più un limite fastidioso, ma piuttosto un’opportunità commerciale di differenzazione.
Bernd Bischoff, ceo di Fujitsu Siemens ha declinato il fronte competitivo lungo note verdi: dagli schermi salva energia che permettono di risparmiare fino a 7000 euro all’anno ogni mille pc, ai processi produttivi a basso impatto ambientale, fino alle schede madri senza piombo.
Il consumatore del nuovo millennio è cambiato. La tecnologia e il web hanno progressivamente annullato l’asimmetria informativa tra imprese e individui, fornendo a questi ultimi l’accesso a un’informazione illimitata. Di fatto, la ragion critica kantiana risiede oggi nel singolo, sede reale della valutazione e della scelta. I driver decisionali dell’individuo sono i suoi valori: l’ecologia e il rispetto per la biosfera stanno emergendo come valori centrali della modernità. Il nostro tempo saluta l’emergere di una domanda verde, di ecosostenibilità delle attività e di possibilità di riciclo dei prodotti industriali.
Il consumatore critico è in grado di analizzare i costi e benefici derivanti dall’acquisto di un prodotto o servizio, e quindi di “prezzarne” l’onerosità complessiva. L’azione di acquisto non è infatti scevra da conseguenze in termini di responsabilità: l’utilizzo infatti è l’azione che comporta il deterioramento di un oggetto, la sua progressiva perdita di valore. Quando il bene acquistato è sostituito, esso diviene scarto e come tale grava sulla comunità. L’impatto che il bene ha sulla comunità in quanto potenziale scarto assume un valore economico e come tale viene prezzato sul mercato. L’etica della responsabilità è la traduzione in prassi di un modo liberale di affrontare il tema della tutela ambientale, che spesso si risolve con dei no incondizionati e di conseguenza miopi. La responsabilità è duplice: è dell’impresa che deve considerare le conseguenze ambientali della propria attività; è del consumatore che deve analizzare criticamente la propria attività di consumo.
Il logos dove queste responsabilità si incontrano si trova nella dimensione competitivà: l’impresa che inserisce “l’ecologia” nei suoi obiettivi strategici ha la chiave per trasferire un valore aggiunto al consumatore tramite la realizzazione di prodotti ecologicamente intelligenti, che siano in grado di ridurre l’onerosità a carico del cliente. Il gioco competitivo includerà ben presto la compatibilità ecologica dei prodotti nella lista delle priorità strategiche che l’azienda deve perseguire: esse si devono sforzare di soddisfare quella domanda verde di cui accennavamo sopra. Il consumatore critico, dal canto suo, sarà disposto a premiare con la sua fedeltà le aziende interpreti dei suoi valori.
In questo modo le imprese che trovano le soluzioni più intelligenti dal punto di vista dell’ecocompatibilità e dell’ecosostenibilità di tutta la filiera industriale saranno anche le più profittevoli. Premiate dalla selezione di mercato, si garantiranno i profitti necessari a reiterare il processo di sviluppo di un’intelligenza verde che persegua in misura sempre più effettiva gli obiettivi di progresso ecologico.


Marco Saccone

Fonte: http://www.loccidentale.it/

Nella speranza che un giorno la guerra finisca