il Gerba: Headline Post

domenica 4 novembre 2007

CHI DICE LA VERITA' SUL CONFLITTO ISRAELE - PALESTINA?

La verità è creata da chi racconta gli avvenimenti. Sul conflitto in medio oriente ci sono tante notizie ma io non ho mai sentito e mai letto quello che ho pubblicato nei due post successivi.

Riporto di seguito alcune informazioni in più. Mi sembra giusto dare visibilità a chi racconta una verità diversa da quella che sentiamo sui media istituzionali.


Infopal.it è un'agenzia stampa online, edita da un'associazione senza fini di lucro, Infopal, che pubblica notizie (attraverso i propri uffici di corrispondenza nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania) e informazioni culturali, politiche e sociali sulla Palestina, dirette al mondo della comunicazione giornalistica, della politica, della cultura e dell'associazionismo italiani, e ai semplici navigatori...L'Agenzia stampa INFOPAL si occupa di:offrire un servizio d'informazione sulla situazione del popolo palestinese in patria e all'estero, attraverso notizie, inchieste, report e articoli tematici che vengono "lanciati" in rete più volte al giorno.L'Agenzia stampa INFOPAL si rivolge a:redazioni di quotidiani, riviste, agenzie stampa, tv, associazioni, sindacati, partiti, amministrazioni pubbliche, studiosi, volontari, internauti...Editore dell'Agenzia stampa Infopal è l'omonima associazione senza fini di lucro - Infopal- il cui Statuto costitutivo, registrato a gennaio 2006, così recita: 'l'Associazione si propone di perseguire esclusivamente fini di solidarietà e informazione socio-culturale consistenti nella promozione e la tutela dei diritti civili e politici del popolo palestinese. In particolare si propone di: offrire un servizio d'informazione sulla situazione in cui versa il popolo palestinese attraverso un'agenzia stampa appositamente creata che diffonda notizie, dati, ricerche, testimonianze giornaliere e documentate in merito al popolo palestinese; organizzare incontri, seminari, mostre e scambi di natura socio-culturale-sanitaria (attraverso programmi di cooperazione decentrata) aventi come tema la Palestina e i suoi abitanti; diffondere gli studi e le ricerche inerenti alla causa palestinese onde informare l'opinione pubblica italiana; organizzare eventi e manifestazioni culturali che abbiano come finalità la diffusione di notizie e la sensibilizzazione sulla situazione palestinese.

I SOLDATI ISRAELIANI PORTANO A CASA LO "SCALPO" DEI PALESTINESI UCCISI: UNA FOTO RICORDO SUL TELEFONINO

Tel Aviv 2/11/2007
Il nuovo gioco praticato dai soldati israeliani? Scambiarsi le foto dei palestinesi uccisi. Da loro, ovviamente.
E come? Con il cellulare.
E' quanto racconta un articolo pubblicato ieri dal quotidiano israeliano Ma'ariv.
Ma'ariv scrive che i soldati salvano sugli schermi dei loro telefonini le immagini dei cadaveri dei palestinesi uccisi durante le incursioni, gli scontri, gli omicidi mirati, ecc.A questa pratica macabra si dedica la famosa Brigata Golani ma anche altre truppe della fanteria e dell'aviazione.
Il senso è quello di "fare lo scalpo" al nemico, in segno di "vittoria". Un ulteriore, profondo, imbarbarimento della società israeliana, di cui soldati di leva e riservisti sono parte.


Fonte: http://www.infopal.it/

I BAMBINI DI GAZA CHIEDONO LA FINE DELL'ASSEDIO

Gaza 2/11/2007
Ieri sera, il Comitato Popolare contro le Sanzioni ha organizzato una manifestazione di bimbi di Gaza che hanno sfilato per le strade manifestando contro l'assedio e la chiusura dei valichi.
I bambini, avvolti nella kafiya, reggevano cartelli che chiedevano la fine dell'assedio imposto da Israele, dagli Usa e dalla comunità internazionale dopo la vittoria di Hamas il 25 gennaio dell'anno scorso.
I piccoli si sono rivolti poi alla comunità internazionale affinché si impegni a garantire loro pace e libertà.
Il feroce assedio e boicottaggio imposto alla Striscia di Gaza ha provocato una grave crisi umanitaria: l'assistenza sanitaria è a pezzi, i malati muoiono perché non possono ricevere le cure necessarie, i bambini sono nutriti in modo carente e insufficiente, gli studenti non possono recarsi all'università, 3500 tra aziende e laboratori sono falliti per mancanza di materie prime e per l'impossibilità di esportare i prodotti.
Tutto ciò, perché il popolo palestinese, un anno e mezzo fa, ha liberamente e democraticamente votato ed eletto il movimento di Hamas, inserito nella black list israelo-americana.
Se questa è Civiltà...


Fonte: www.infopal.it

lunedì 29 ottobre 2007

USA, RUSSIA E L'IRAN

Ormai lo scambio di messaggi, variamente inquietanti e in crescendo, tra Washington e Mosca, sta diventando quotidiano. Gli Stati Uniti accentuano la pressione su Teheran, mettono nel mirino i guardiani della rivoluzione iraniana, li definiscono terroristi, comunicano che chiunque abbia a che fare con loro e con le loro banche sarà messo all'indice dalle autorità americane.
E' come se, diciamo, un Paese dichiarasse suo nemico non il governo di un altro Paese ma le sue truppe speciali, o la sua polizia politica. Mossa davvero singolare, invero, e inedita nella storia moderna. Tecnicamente equivale a dire che il governo americano si riserva il diritto di colpire selettivamente i centri di comando dei Pasdaran. Un altro passo di una escalation sempre più evidente. Vladimir Putin - sempre più nelle vesti di protettore dell'Iran - risponde subito da Lisbona: gli Stati Uniti «stanno creando ai nostri confini una minaccia», che è, «dal punto di vista tecnologico e militare simile a quella che nel 1962 si creò con i nostri missili a Cuba». E' una replica asimmetrica, quella del russo Putin, perchè gli Stati Uniti le minacce le indirizzano su Teheran, ma il significato è transitivo: i missili li mettete in Polonia e nella Repubblica Ceca per contrastare quelli (eventuali) iraniani, ma quei missili saranno ai nostri confini e, quindi, «costituiscono una minaccia» per la Russia. E' vero, aggiunge Putin, che Russia e Usa non sono più nemici, ma, se Washington «non tiene conto delle nostre preoccupazioni» sappia che noi interpreteremo le loro mosse come una minaccia, cioè come un «innalzamento del livello di crisi». E il riferimento a Cuba indica un livello di allarme molto alto, perchè in quel lontano 1962, adesso lo sappiamo, Kennedy e Krusciov vennero portati letteralmente sull'orlo della guerra atomica. Certe similitudini non vengono scelte a caso e, di certo, Putin non improvvisa quando le usa. Il tutto avviene pochi giorni dopo le dichiarazioni di George Bush, che agitavano lo spettro di una Terza Guerra Mondiale, logicamente atomica. Alle quali Putin aveva risposto nientemeno che da Teheran, dov'era in corso l'incontro dei Paesi del Mar Caspio, Russia, Kazakhstan, Turkmenia, Azerbaijan e Iran. Nessuno tra noi - aveva detto Putin stringendo la mano al Presidente Ahmadinejad - appoggerà o acconsentirà di essere base per l'uso della forza. Avvertimento al vicino Azerbaijan, troppo amico di Washington, ma anche a Washington direttamente: non provateci, non siamo più nel 2001 e l'Iran non è l'Afghanistan. E aveva annunciato un poderoso programma di riarmo strategico-nucleare da qui al 2015, compresi tre nuovi sommergibili nucleari, i più temibili perchè i meno parabili da qualunque sistema di protezione. C'è una spiegazione sola per questo roteare di sciabole verbali: Mosca ha sentore (probabilmente anche informazioni) che Bush sta pensando seriamente ad un attacco militare contro l'Iran, e lancia avvertimenti in serie. In caso di attacco sull'Iran, è chiaro, Putin non muoverà un dito, anche perchè sarebbe davvero lo scenario dell'apocalisse. Ma fa sapere che questa eventualità muterebbe radicalmente il quadro delle relazioni mondiali.


di Giulietto Chiesa , Megachip – da La Stampa

giovedì 25 ottobre 2007

LA CASTA DEI GIORNALI

E poi vogliono mettere il bavaglio ai blog !!!
“La storia dei contributi diretti e indiretti all'editoria è antica, ma da ieri è possibile per la prima volta andare a spulciare l'elenco dettagliato di chi li riceve e dei relativi stanziamenti”. Era il 4 gennaio del 2006 e solo due quotidiani italiani aprivano un‘operazione trasparenza sul mondo dell'editoria e sui finanziamenti di Stato ai giornali di partito (ma non solo) destinata, nei mesi immediatamente successivi, a scoperchiare il vaso di pandora della distorsione del mercato della carta stampata.
Venivano alla luce sovvenzioni a pioggia, spesso elargite a giornali semiclandestini, attori di un teatrino di inganni ed imposture a discapito del cittadino contribuente. Circa 700 milioni di euro in un anno che finiscono in mille rivoli, sotto forma di contributi diretti o indiretti, nelle tasche di grandi gruppi editoriali così come nelle borse di finti giornali di finti movimenti e di cooperative fasulle, rimpolpando gli utili degli azionisti di grandi testate in attivo e alimentando, in questo modo, una sorta di sottogoverno e di clientele. Una vera e propria rapina di risorse pubbliche, una distorsione del mercato che, tuttavia, fa anche capire la mortificazione in cui versa la stampa italiana costretta, per ragioni di pagnotta dei soliti “amici degli amici”, ad essere grancassa e specchio della “casta” del potere politico. Qualche tempo dopo, intorno a marzo 2006, un'inchiesta televisiva di Report di Raitre, svelerà all'ignaro mondo dei lettori dei quotidiani italiani l'esistenza di un mondo di giornali poco venduti e omologati tra di loro. Soprattutto finanziati dallo Stato, dalla casta dei partiti, per mere questioni di propaganda politica e destinati a tutto tranne che a informare davvero il cittadino-lettore ed elettore: informazione “embedded” non destinata alle edicole ma alle scrivanie dei poteri forti del Paese. Ce lo ricorda Beppe Lopez, cronista di razza e scrittore, autore di un' inchiesta scomoda, “La casta dei giornali”, per “Stampa Alternativa”. E dove si dà conto, per la prima volta in modo organico e puntuale, di come l'organizzazione della “casta” della politica trovi nell'editoria asservita, propagandistica e - soprattutto - sovvenzionata dai soldi pubblici, il proprio braccio armato. Titolava, infatti, il Qn il 5 settembre di un anno fa: “Giornali loro, soldi nostri. Basta avere un movimento politico o anche solo due parlamentari alle spalle per accedere ai contributi pubblici”. Fra i beneficati avevano l'onore di una fotina Feltri (5.371.151 euro), Ferrara (3.511.906), Polito (2.179.597) e naturalmente Antonio Padellaro, direttore de L'Unità, il giornale percettore del contributo più alto (6.817.231). “Nei due giorni successivi alcuni quotidiani - scrive Lopez nella sua inchiesta - aprendo una crepa nel muro di reticenza e di complice silenzio eretto e scrupolosamente invalicato negli anni dalla quasi totalità dei giornali, sviluppava una breve campagna d'informazione, con un taglio quasi di contro-informazione, sullo scandalo dei contributi: “160 milioni di euro a editori che si nascondono spesso dietro fantomatici movimenti politici” e “una legge del 2000 (poi modificata) che concede prebende a coop fatte ad hoc”. Incipit di uno dei servizi? “Il bello è che tra loro ci sono alcuni dei campioni del liberismo economico, editori che da anni chiedono, pretendono la libera impresa rispetto all'antico Stato assistenziale. E ricordano, giustamente, che il rischio fa parte del gioco. Gente con le idee chiare e col portafoglio zeppo di milioni di euro, frutto delle elargizioni”. Conclusioni: “E' il grosso delle elargizioni che, in tempi di carestia, andrebbe rivisto. Per dare un segnale al Paese, alla gente che deve arrivare a fine mese senza contributo pubblico”. Parole che potrebbero essere state scritte ieri godendo di una maggiore attualità di allora. Perché nulla è cambiato. Anzi. Ecco perché Beppe Lopez ha avuto buon gioco nel rispolverare questo scandalo che non trova giustizia (la casta tende a tutelare se stessa e i suoi vassalli del quarto potere), stavolta elencando pedissequamente le elargizioni statali ai giornali di partito, alle finte cooperative, ai grandi gruppi editoriali, citandoli tutti contributo per contributo, provvidenza per provvidenza. E annunciando – senza tema di smentite – che il prossimo, possibile “V-Day”, avrà come imputati eccellenti proprio “la casta dei giornali”, intimamente legata a quella politica e quindi non meno colpevole dello sfascio del sistema. Ma si farebbe un errore a giudicare il dotto pampleth di Lopez come un' operazione furbesca, dettata dall'apertura di un mercato di denuncia sull'onda dell'emozione (e dell'impressione) causata dal forte seguito avuto da Grillo e dalle sue piazze. Lopez, in realtà, con il libro denuncia l'assenza di un mercato reale dell'editoria. Che in quanto sovvenzionata e tutelata, rimane asfittica rispetto alla necessità di innovarsi guardando anche alle nuove tecnologie come risorse e non come avversari da contrastare per tutelare il proprio orticello. Oggi la “casta dei giornali” è solo lo specchio fedele di quella politica, autoreferenziale ed elitaria, piegata sul mantenimento di interessi di bottega e, dunque, mai veramente libera, perché il potere si autoalimenta impedendo al mercato di espandersi. In ultimo, Lopez fornisce anche qualche idea su come uscire da questa spirale scandalosa, come quella di rivedere le attuali norme per favorire, attraverso le sovvenzioni pubbliche, la nascita di nuovi soggetti editoriali che aprano il mercato a nuove voci, secondo regole rigide e mai a tempo indeterminato. Ne trarrebbe giovamento la cultura e, soprattutto, la democrazia. Per ora è proprio questo che la “casta dei giornali”, su mandato dei padroni e dei padrini, si guarda bene dal fare.

di Sara Nicoli - da www.canisciolti.info

domenica 21 ottobre 2007

ATTESA

Aspettando un giorno di dolce tepore usiamo coltri invernali per costruire i nostri alibi.
Aspettando un'eclissi notturna, rubiamo il tempo alle nostre vite.
Aspettando il filtro dell'innocenza, viaggiamo alla ricerca del mediocre benessere: quello del corpo.
Ora vorrei tanto farvi vedere,
un filo invisibile lega le nostre vite, un sole artificiale abbaglia i nostri occhi.
E' solo tempo di capire...

Tratto da "Un Mostruoso Fiore di Carne", opuscolo atipico pubblicato nel 2003
Alessandro Bucci

UN MOSTRUOSO FIORE DI CARNE

Chi può essere un mostruoso fiore di carne se non l'uomo?
Fiore, perchè meglio simboleggia, con la sua semplice bellezza, i momenti di dolcezza e passione che lo hanno contraddistinto in tutte le sue rinascite d'animo, mostruoso e di carne perchè meglio simboleggia la sua corruttibilità e la sua decadenza.
Una decadenza prescritta dalla brama del possedere che porta con sé il destino dell'umanità.
In questo crescere e combattere per affermarsi, che pare essere la storia dell'uomo, c'è proprio il polline del nostro mostruoso fiore di carne.
Esso inebria chiunque si posi per cibarsene, in quanto il suo effetto a lungo andare può provocare smania di grandezza. Giocando con il potere si diventa potenze, diventando tali, si agisce discriminando.
La potenza deve mantenere la propria egemonia e nel far ciò deve annullare o comunque circoscrivere ogni possibilità di minaccia.
E' questo il gioco che si richiude su di noi. Ogni essere incarnato si crede un centro di potenza e in quanto tale deve affermarsi a scapito dell'altro.
Il mostruoso assume i giusti connotati.

Tratto da "Un Mostruoso Fiore di Carne", opuscolo atipico pubblicato nel 2003
Alessandro Bucci

sabato 20 ottobre 2007

MISSILE USA DISTRUGGE FATTORIA IN QATAR

Un missile Patriot ha distrutto una fattoria, in Qatar dopo essere stato sparato accidentalmente da una vicina base militare statunitense nel paese.
Nessuno è rimasto ferito nell'incidente e le forze armate americane hanno detto di aver avviato un'indagine per comprendere cosa sia successo realmente.
"Stiamo indagando" ha detto Holley Silkman il portavoce presso la base Usa in Qatar.
"E' stato solo un incidente" afferma Bryan Whitman, il portavoce del Pentagono. Secondo i rapporti, il missile è esploso in aria mentre i detriti sono caduti oltre la fattoria, che si trova nel nord del deserto.
Un veicolo della polizia militare del Qatar staziona all'ingresso della fattoria mentre ai reporter è stato rifiutato l'accesso al sito.
Il Patriot è un sistema missilistico utilizzato dai militari americani e da molti dei suoi alleati compreso Israele.


La fonte di questa notizia è Al Jazeera e si è deciso di pubblicarla in quanto non evidenziata da alcuna testata giornalistica occidentale.

martedì 16 ottobre 2007

L'AUTO-GOL DELLA TURCHIA

La decisione turca di dare il via libera a un’operazione oltre-confine, come possibile rappresaglia per una risoluzione sul genocidio armeno adottata la scorsa settimana dalla Commissione affari esteri della Camera Usa, nel lungo termine colpirà le riforme economiche e politiche della Turchia, isolandola dal resto del mondo. Lo affermano analisti turchi e occidentali. L’immagine attuale che sta offrendo la Turchia – dai media al governo, fino ai militari – non è quella che deve prevalere nel senso comune se Ankara non vuole permettere che venga isolata dal mondo, dice un analista militare turco. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha detto venerdì scorso di essere pronto a rompere le relazioni con gli Stati Uniti per lanciare un’incursione nel nord dell’Iraq alla caccia dei terroristi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) fuorilegge. "Se viene scelta una tale opzione, qualunque sia il suo costo, sarà pagato. Potrebbero esserci dei pro e dei contro in una tale decisione, ma quello che conta sono gli interessi del nostro Paese", ha detto. Ci si aspetta probabilmente martedì che Erdogan chieda l’approvazione del Parlamento per lanciare gli attacchi contro il Pkk in Iraq. Allo stesso modo, la Turchia ha reagito sia con durezza che con emotività all’approvazione di una risoluzione da parte della Commissione per gli affari esteri della Camera Usa, il 10 ottobre, che ha bollato i fatti della prima guerra mondiale in territorio ottomano come “il genocidio degli armeni”. Nancy Pelosi, presidentessa della Camera dei rappresentanti Usa, ha fatto sapere la scorsa settimana che ha intenzione di inoltrare la risoluzione alla Camera al completo a inizio novembre. Una decisione turca di incrementare la lotta al Pkk, anche con un operazione oltre-confine, è arrivata un giorno prima dell’adozione della risoluzione da parte della Commissione. La mossa è arrivata in seguito all’uccisione di 13 soldati turchi nel sud-est, nei pressi del confine iracheno. Entrambi gli incidenti, arrivati uno dopo l’altro, hanno buttato benzina sulla già esistente frustrazione turca sull’irrisolta questione del terrorismo del Pkk, così come sulle accuse del genocidio armeno che hanno perseguitato la Turchia per circa novanta anni.

Lale Sariibrahimoglu - (Traduzione di Carlo M. Miele)
Per l'articolo completo vai su http://www.osservatorioiraq.it/

domenica 14 ottobre 2007

ALTERAZIONI POLITICHE

Si parte dall’assunto che la dialettica politica tra gli attori che si contendono gli elettori è in realtà una disputa e che essa può essere paragonata ad una discussione verbale. Ogni parte, infatti, cerca di prevalere sull’altro attraverso l’arte della persuasione a discapito della verità oggettiva di una affermazione.
Quindi: CHI DISPUTA NON LOTTA PER LA VERITA’ O PER IL BENESSERE COMUNE MA PER IMPORRE LA PROPRIA TESI CON MEZZI LECITI E ILLECITI.
Succede così che chi vince un confronto molto spesso lo deve non tanto alla buonafede della sua tesi quanto all’astuzia e alla destrezza con cui la sostiene. Tutto si riduce ad ottenere l’approvazione ed il consenso dell’uditorio e/o degli elettori tramite l’uso strumentale della dialettica.
Tanto nella politica quanto in una discussione sono importanti due fattori: la forma e i contenuti. Ad oggi i contenuti sono passati in secondo piano dato che la forma permette di piegare l’opinione al consenso.
Forse sarebbe meglio dire che oggi è arrivato il momento di mettere in luce questa ALTERAZIONE presente nell’uomo a causa del suo egoismo e della sua vanità.
La nostra società, poi, a carattere mediatico non ha fatto altro che alimentare questa alterazione. Infatti, i contendenti di una disputa televisiva o di un dibattito politico hanno perso di vista il motivo della loro discussione e badano solamente a difendere le proprie affermazioni e a rovesciare quelle dell’altro.
Dunque, non è la verità quello che conta bensì colpire l’avversario e difendersi. E’ evidente che un tal modo di fare politica è distruttivo e non porta a nulla di buono.
I nostri politici dovrebbero capire che di fronte non hanno un nemico ma semplicemente un collega con il quale cooperare.
BASTA CON LA DEMONIZZAZIONE DELL’ALTRO. È TEMPO DI COLLABORARE!!!


Alessandro Bucci

domenica 7 ottobre 2007

LA FABBRICA DEL NON SENSO

Per gran parte del XX secolo ormai trascorso, uno dei problemi che più agitavano le coscienze di studiosi e intellettuali che si dedicavano a osservare la società, era costituito del timore delle omologazioni forzose, dell’assenza di indipendenza che poteva scaturire dall’affermazione del capitalismo e del tardocapitalismo, dall’estensione delle logiche dell’economia del consumo e dalla fine della politica in senso dibattimentale e dialettico. La sparizione dell’individuo nel consenso generale, privato dello spirito critico, è un tema che, a vario livello, dalla Scuola di Francoforte a una certa sociologia americana (quella attenta di autori come Riesman e Wright Mills) fino a Foucault, si è costantemente manifestato. Oggi, nel XXI secolo, questo tema non ha perso di attualità e, in effetti, la tendenza alla massificazione e il timore del pensiero libero è una costante del genere umano, ma accanto ad esso si affianca anche la questione del non senso. La società complessa rischia di essere non solo una fabbrica del consenso, ma anche una fabbrica del non senso. Numerosi studiosi hanno rilevato questo problema: il percorso di vita di ciascuno nella tarda modernità non è più lineare, non ha più certezze: il sociologo Bauman ha diagnosticato questa condizione con ridondante lucidità in numerosi testi. E un filosofo come Galimberti va denunciando, da anni, questo problema del non senso, che attanaglia molte vite, provando ad affrontarlo non con la psicologia ma con la filosofia appunto.
L’origine di questo non senso che asfissia, però, sta non tanto o non solo nelle incapacità delle istituzioni, nelle difficoltà della storia, nella crisi della politica, nella trasformazione della sfera lavorativa, negli effetti perversi della globalizzazione sui processi di formazione del Sé. Magari l’origine del non senso sta anche in una generale condizione di presunzione di molti abitanti di questa epoca attuale. Si afferma tanto facilmente che ciascuno deve realizzarsi, deve potersi esprimere, deve valorizzarsi e intere scuole terapeutiche fanno di questi concetti un must. Aspirazioni certamente legittime e frutto del progresso politico faticosamente portato avanti dalla modernità più classica, pura e nobile. Ma, forse, questa attività di autoespressione non dovrebbe manifestarsi ex abrupto, ma dovrebbe essere la conseguenza di un periodo di riflessione, di maturazione, di esercizio su sé stessi, di riempimento di sé stessi con conoscenza e sensibilità. Solo con tali elementi le relazioni con se stessi e con gli altri possono sfuggire al non senso e acquisire una unicità, una specificità, un che di davvero irripetibile e fiabesco. Altrimenti cosa può esprimere ciascuno? Cosa si può tirar fuori da un recipiente vuoto? L’aria mefitica del suo nulla? O dobbiamo credere che, dietro questa esagitata necessità espressiva, vi sia il fatto che, oggi, tutti gli uomini siano artisti? Che questi decenni contengano la più alta concentrazione di artisti mai verificatasi nella storia dell’umanità? Magari è così, ma, una volta, si diceva che, perché qualcuno possa definirsi artista, deve passare qualche decennio dalla sua morte. Può darsi, tuttavia, che, nella vicenda postmoderna, il canone di riferimento sia più modesto. E, allora, si aprano le porte alla fiera di questo espressionismo senza acuti e benvenuti tutti nel deserto del reale, frutto splendente della fabbrica del non senso. Così è se vi piace. Sperando esista qualcuno cui spiace che così sia.


Francesco Giacomantonio

MUTUI: AUMENTA LA RICHIESTA DEL TASSO FISSO

Gli italiani scelgono sempre meno i mutui a tasso variabile e sempre più quelli a tasso fisso. Questa è la reazione del settore del credito agli aumenti dei tassi e alla crisi dei mutui subprime. Secondo i dati Assofin (Associazione Italiana Credito al Consumo e Immobiliare), nel primo semestre del 2007, i mutui a tasso fisso sono risultati il 51% del totale. Un salto notevole se confrontato con il 18% dello stesso periodo dell'anno scorso. E un altro dato significativo è il rallentamento della crescita delle erogazioni. Nel primo semestre 2006 crescevano del 21,1%. I dati sui primi tre mesi del 2007 parlano di aumento del 6,8%. Un raffreddamento dovuto all'aumento dei tassi per chi ha scelto il variabile (il parametro di indicizzazione Euribor è più che raddoppiato dal giugno 2005), ma anche all'effetto subprime. Un'altra conseguenza è poi il forte incremento delle richieste di rinegoziazione dei mutui (possibile grazie alle nuove norme del decreto Bersani). «Sono molti quelli che chiedono di rinegoziare le condizioni o di passare al tasso fisso perchè si sentono più sicuri» spiega Mauro Silvestri del gruppo Mps.
«La crisi di fiducia e di liquidità generate dalla crisi americana hanno comportato per le banche un aumento del costo di approvvigionamento», spiega Luciano Ambrosone, responsabile dell'Ufficio per i finanziamenti ai privati di Intesa SanPaolo. Un fatto che ha obbligherà gli istituti di credito ad aumentare il costo dei mutui.
Questo, secondo l'Adusbef, «smentisce clamorosamente le rassicuranti dichiarazioni di Bankitalia, Bce e Autorità monetarie secondo le quali la crisi dei mutui sub-prime non avrebbe avuto effetti sulle banche italiane». E secondo l'associazione dei consumatori bisogna prepararsi a «una ulteriore stangata su mutui e prestiti di circa 180 euro all'anno». L'Adusbef, che ha studiato il rapporto della Bce sul mercato del credito in Europa, è convinta che «nel quarto periodo dell'anno, ci sarà un'ulteriore riduzione nell'accesso al credito sia da parte delle stesse banche che dei consumatori».

Fonte: www.ilsole24ore.com

sabato 6 ottobre 2007

LIBERTA' ED ETICA

Riflettendo sul concetto di liberta’, comprendo che è difficile ingabbiare il suo significato in una sterile definizione. La storia ci insegna che la libertà è una conquista, un traguardo, un bene comune. Oggi grazie ad un percorso iniziato dagli antichi, siamo orgogliosi di affermare:
- sono libero di pensare secondo il mio punto di vista;
- sono libero di esprimere le mie opinioni;
- sono libero di operare le mie scelte;
- sono libero di agire secondo la mia volontà.
Ma noi uomini, è risaputo, non siamo esseri infallibili. La nostra cultura oscilla tra desideri e doveri, tra interessi faziosi e imperativi morali, tra ambizioni e buon senso.
Ecco che la libertà rischia di diventare un alibi. Può essere sventolata per prevaricare, per imporre il proprio volere, per plasmare il mondo secondo visioni totalizzanti. Per questo credo che la libertà sia un concetto limite. La libertà in sé tende a diventare libertà assoluta e, in quanto tale, attenuante di una volontà distorta.
La nostra condotta è mossa fondamentalmente dalla ricerca del piacere e della felicità. Il nostro ego anella ad essi per il proprio benessere individuale.
Così descritto l’uomo sembra paragonabile ad un fiume in piena che può spazzare tutto e tutti, pur di raggiungere il proprio obiettivo. Per questo ha bisogno di una diga, di un argine, di un freno. Nel momento in cui siamo diventati capaci di migliorarci attraverso il libero confronto, abbiamo compreso che esiste un bene superiore al benessere dell’individuo: la collettività.
L’individuo è libero fino a quando non arreca danno agli altri, fino a quando non nega l’altrui libertà di dissentire, fino a quando non lede l’integrità mentale e fisica del suo pari. Ecco perché la libertà è nulla senza un comportamento etico; un comportamento responsabile che crei equilibrio stabile tra uomo e alterità, tra individuo e società, tra governanti e governati, tra il forte e il debole.
Ognuno di noi ha diritto ed il dovere di esprimere la propria visione delle cose, di agire secondo i propri valori, ma nessuno può lontanamente pensare di utilizzare gli altri come strumenti per perseguire i propri fini; nessuno può ridurre un uomo libero ad oggetto.
È questo il confine sottile tra libertà ed oppressione; è questo il limite invalicabile che l’etica deve difendere.


Alessandro Bucci

DOSSIER GLADIO

Gladio è il nome di un'organizzazione clandestina di tipo "stay behind" ("stare in retroscena") promossa dai servizi d'informazione italiani e dalla NATO per contrastare un'eventuale invasione sovietica dell'Italia.
Malgrado Gladio sia propriamente utilizzato in riferimento solo alla "stay-behind" italiana (o, secondo alcuni, la principale e più duratura tra diverse stay-behind che operarono in Italia), il termine è stato applicato dalla stampa anche ad altre operazioni di tipo stay-behind. Durante la guerra fredda, quasi tutti i paesi dell'Europa occidentale organizzarono reti stay-behind sotto controllo NATO.

L'esistenza di Gladio, sospettata fin dalle rivelazioni rese nel 1984 dal membro di Avanguardia Nazionale Vincenzo Vinciguerra, durante il suo processo, fu riconosciuta dal Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti il 24 ottobre 1990, che parlò di una "struttura di informazione, risposta e salvaguardia". Gladio è stata accusata di aver tentato di influenzare la politica interna usando la strategia della tensione.

Lo scopo principale dell'Operazione Gladio era di contrastare una possibile invasione dell'Europa occidentale da parte dell'Unione Sovietica e del Patto di Varsavia attraverso sabotaggio e atti di guerriglia dietro le linee nemiche. La NATO temeva il fatto che l'Unione Sovietica possedesse un'ampia superiorità per potenza militare convenzionale, da cui l'Europa occidentale e la NATO non avrebbero potuto sperare di sconfiggere l'Armata Rossa in un conflitto diretto senza ricorrere all'uso delle armi nucleari. Le organizzazioni "stay-behind" della NATO rappresentavano una possibilità di combattere nel caso di una sconfitta militare dovuta alla supremazia militare dell'Unione Sovietica. Le sue cellule clandestine erano destinate a "stare nascoste" (stay behind in inglese, da cui il nome) in territori controllati dal nemico e comportarsi come movimenti di resistenza, conducendo sabotaggi, guerriglia e uccisioni. Vennero considerate altre forme di resistenza clandestina e non convenzionale, come le "operazioni false flag" (attentati e simili operazioni rivendicate sotto falsa bandiera per fomentare divisioni politiche), e attacchi terroristici.

La presenza di una struttura stay-behind in Italia risale al 1949, seppure con un nome diverso da Gladio. In una relazione del Comitato Parlamentare sui servizi segreti del 1995 si legge che:
« In base a quanto risulta dalle indagini giudiziaria è fuor di dubbio che in epoca precedente alla creazione di Gladio sia esistita un'altra organizzazione denominata "Duca", con le stesse finalità e struttura analoga, di cui sappiamo ben poco e che dovrebbe essere stata sciolta intorno al gennaio 1995 (ma in vari documenti acquisiti dall'Autorità giudiziaria si parla di organizzazione "Duca - Gladio").[4] »
Gladio viene costituita con un protocollo d'intesa tra il Servizio italiano e quello statunitense del 26 novembre 1956, nel quale però vi era stato un esplicito riferimento ad accordi preesistenti: nella relazione inviata dal presidente del Consiglio Andreotti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo e sulle stragi il 17 ottobre 1990 verrà segnalato che con quella intesa tra SIFAR e CIA erano stati "confermati tutti i precedenti impegni intervenuti nella materia tra Italia e Stati Uniti".
Nel giugno 1959 il Servizio segreto italiano entrò a far parte del "Comitato di pianificazione e coordinamento", organo di SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe) (si veda il documento desecretato). Nel 1964, del "Comitato clandestino alleato (ACC)", emanazione del suddetto Comitato di pianificazione e coordinamento e costituito tra paesi che intendevano organizzare una resistenza sul proprio territorio, in caso di aggressione dall'Est e, a quanto sembra, anche nell'eventualità di "sovvertimenti interni".
Il 24 ottobre 1990 Giulio Andreotti, capo del governo italiano, rivelò alla Camera dei Deputati l'esistenza di Gladio, che fu quindi la prima organizzazione aderente alla rete "stay-behind" ad essere resa pubblica. Oltre a prepararsi per una invasione sovietica, il ramo italiano avrebbe dovuto agire in caso di elezione in Italia di un governo comunista. Poiché l'Italia era la nazione in cui era più probabile l'elezione a mezzo di libere elezioni di un governo a guida comunista (il PCI raccolse, dal 1963 in poi, una percentuale sempre superiore al 25% del voto popolare, con punte del 34,4%, e alcune correnti della DC reputavano possibile un suo coinvolgimento nel governo), il ramo italiano di Gladio divenne anche la più grossa organizzazione "stay-behind" della NATO.
Quando l'esistenza di Gladio divenne di pubblico dominio venne pubblicato un elenco di 622 "gladiatori", ufficialmente tutti i partecipanti dalla fondazione allo scioglimento dell'organizzazione, ma da più parti questa lista è stata considerata incompleta, sia per il ridotto numero di operativi, ritenuto troppo basso rispetto ai compiti dell'organizzazione estesi in quasi 40 anni, sia per l'assenza nella lista di alcuni personaggi che da indagini successive (e in alcuni casi per loro stessa ammissione) avevano fatto parte dell'organizzazione.


FONTE: stralci da http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Gladio

Per approfondire:
http://www.geocities.com/Pentagon/4031/real.htm realizzato da un gladiatore
http://digilander.libero.it/infoprc/gladio.html realizzato da un appassionato dell'argomento

giovedì 4 ottobre 2007

LA SOCIETA' CRITICA DELLA TEORIA

Per gran parte del secolo ormai trascorso uno degli indirizzi sociologici, filosofici e, più in generale, culturali che hanno dominato e infervorato il dibattito intellettuale è stato quello della Teoria critica della società. Opera della cosiddetta Scuola di Francoforte, la teoria critica della società aveva i suoi alfieri principi in Horkheimer, Adorno, Marcuse che, nel loro approccio, propugnando un pensiero dialetticamente negativo, ponevano in discussione l’esistente e lottavano strenuamente, perché gli individui non perdessero la loro umanità nella società tecnologica e nelle logiche del capitalismo. In questo inizio del XXI secolo, epoca che, già da un po’, ha sancito il trionfo dell’individualismo e la fuga dalla politica, in cui l’indifferenza si fa strada, in cui le ideologie e le grandi narrazioni hanno ricevuto da Lyotard il certificato di morte, l’espressione teoria critica della società, forse, a qualcuno fa anche tenerezza. E non solo perché i disincantati uomini tardo moderni conoscono il monito sprezzante di Carl Schmitt, per cui chi dice umanità vuole ingannarti.
È curioso come, a volte, le espressioni possano capovolgersi svelando nuove interpretazioni; così oggi si può credere che al posto di una teoria critica della società, c’è, in molti ambiti, una società critica della teoria. In questi anni, cioè, la società è divenuta sempre più diffidente, indisponibile a pensare, ad avere il gusto per la teoria, per il sistema di pensiero e, soprattutto, essa si è abituata a non considerare affatto ciò come qualcosa di deleterio. Questo è certamente microscopicamente evidente nella realtà quotidiana, fatta di immediatezza e scarsa predisposizione per la ricostruzione e l’approfondimento, che diventano una scelta di alcuni e non un’esigenza per tutti, come testimonia l’evoluzione della tv che si distingue tra generalista e satellitare. Ma, anche nella vicenda intellettuale e accademica, questa avversione per la teoria è evidente. Sono rarissimi i casi, nelle scienze sociali degli ultimi decenni, di studiosi che hanno ancora il coraggio e la voglia di confrontarsi con la grande teoria. E l’affermarsi di un pensiero sempre più analitico e astorico in taluni ambiti di ricerca, scientifici e umanistici, è noto. È, forse, ormai il tempo del filosofo da marketing, che produce concetti usa e getta, che formula il suo pensiero nell’arida e asettica successione di slides per computer. Questa perdita del gusto della teoria forse dipende anche dalle degenerazioni che essa può avere. La società critica della teoria ha imparato, proprio dalla storia politica, sociale, intellettuale, del XX secolo, che i grandi sistemi di pensiero possono perdere il senso della realtà, possono essere i precursori di derive totalitarie: sfavillano ancora gli strali di Popper contro Platone, Hegel, Marx, nemici della società aperta; la società critica della teoria sa che una teoria troppo estesa rischia di non essere pratica, peccato gravissimo nell’era dei servizi; sa che una grande teoria si sbriciola di fronte alle andate di relativismo che, nel mare magnum, della modernità, si levano fragorose e minacciose. Nella vicenda della società critica della teoria, c’è, certamente in virtù di tutto questo, una certa saggezza, finanche una garbata saggezza. Ma il giusto buon senso che tiene lontani da un pensiero troppo esteso e distanti dal gusto per la grande teoria davvero è sempre segno di un equilibrio, solo quando sa fermarsi almeno un attimo prima della mediocrità. Altrimenti quella saggezza si trasforma in una triste vigliaccheria che, sopprimendo ogni capacità immaginativa, può privare chi la pratica, della coscienza di sé e dell’amore per gli altri.


Francesco Giacomantonio

martedì 2 ottobre 2007

COME SI SALVA L'AMBIENTE CON IL PROFITTO

I Ceo di tutte le multinazionali hanno un nuovo elemento da considerare nella loro agenda competitiva: la tutela ambientale. La tutela ambientale non più come vincolo, come insieme di target fissati da una qualche authority ostile e lontana, ma come obiettivo competitivo e, come tale, di profitto.
Molte imprese hanno cominciato a considerare il problema dell’impatto ambientale dei loro processi e prodotti già da parecchi anni. L’azione è stata mirata a sensibilizzare il consumatore sull’efficienza dei prodotti e sul risparmio reso possibile dalla razionalizzazione ecologica dei processi aziendali. Incalzati dalle legislazioni sovranazionali, i produttori hanno abolito le macchine più inquinanti, sostituendole con alcune dall’impatto ecologico più blando e hanno fornito garanzie circa la classe energetica dei propri prodotti.
Per alcuni pionieri si è trattato di andare ben oltre. Aziende leader nel mercato globale, come Siemens, Starbuck’s e IBM hanno affrontato il tema ecologico, trasformandone i presupposti categoriali: non più un limite fastidioso, ma piuttosto un’opportunità commerciale di differenzazione.
Bernd Bischoff, ceo di Fujitsu Siemens ha declinato il fronte competitivo lungo note verdi: dagli schermi salva energia che permettono di risparmiare fino a 7000 euro all’anno ogni mille pc, ai processi produttivi a basso impatto ambientale, fino alle schede madri senza piombo.
Il consumatore del nuovo millennio è cambiato. La tecnologia e il web hanno progressivamente annullato l’asimmetria informativa tra imprese e individui, fornendo a questi ultimi l’accesso a un’informazione illimitata. Di fatto, la ragion critica kantiana risiede oggi nel singolo, sede reale della valutazione e della scelta. I driver decisionali dell’individuo sono i suoi valori: l’ecologia e il rispetto per la biosfera stanno emergendo come valori centrali della modernità. Il nostro tempo saluta l’emergere di una domanda verde, di ecosostenibilità delle attività e di possibilità di riciclo dei prodotti industriali.
Il consumatore critico è in grado di analizzare i costi e benefici derivanti dall’acquisto di un prodotto o servizio, e quindi di “prezzarne” l’onerosità complessiva. L’azione di acquisto non è infatti scevra da conseguenze in termini di responsabilità: l’utilizzo infatti è l’azione che comporta il deterioramento di un oggetto, la sua progressiva perdita di valore. Quando il bene acquistato è sostituito, esso diviene scarto e come tale grava sulla comunità. L’impatto che il bene ha sulla comunità in quanto potenziale scarto assume un valore economico e come tale viene prezzato sul mercato. L’etica della responsabilità è la traduzione in prassi di un modo liberale di affrontare il tema della tutela ambientale, che spesso si risolve con dei no incondizionati e di conseguenza miopi. La responsabilità è duplice: è dell’impresa che deve considerare le conseguenze ambientali della propria attività; è del consumatore che deve analizzare criticamente la propria attività di consumo.
Il logos dove queste responsabilità si incontrano si trova nella dimensione competitivà: l’impresa che inserisce “l’ecologia” nei suoi obiettivi strategici ha la chiave per trasferire un valore aggiunto al consumatore tramite la realizzazione di prodotti ecologicamente intelligenti, che siano in grado di ridurre l’onerosità a carico del cliente. Il gioco competitivo includerà ben presto la compatibilità ecologica dei prodotti nella lista delle priorità strategiche che l’azienda deve perseguire: esse si devono sforzare di soddisfare quella domanda verde di cui accennavamo sopra. Il consumatore critico, dal canto suo, sarà disposto a premiare con la sua fedeltà le aziende interpreti dei suoi valori.
In questo modo le imprese che trovano le soluzioni più intelligenti dal punto di vista dell’ecocompatibilità e dell’ecosostenibilità di tutta la filiera industriale saranno anche le più profittevoli. Premiate dalla selezione di mercato, si garantiranno i profitti necessari a reiterare il processo di sviluppo di un’intelligenza verde che persegua in misura sempre più effettiva gli obiettivi di progresso ecologico.


Marco Saccone

Fonte: http://www.loccidentale.it/

sabato 29 settembre 2007

DA CHIRAC A BLAIR, TUTTI GLI SCANDALI DI CORRUZIONE

Più della metà degli europei sono convinti che le mazzette o gli abusi di potere siano pratiche diffuse tra i politici. E non hanno affatto torto. State a vedere.
Non ha neanche fatto in tempo a lasciare l’Eliseo, ché subito l’ex Presidente Jacques Chirac è ricaduto nella morsa della giustizia. Il 14 settembre prossimo i magistrati daranno il loro verdetto nell’ambito dell’inchiesta aperta dopo la scandalo sui fondi illeciti a favore del partito Rpr (Rassemblement pour la République). Motivo del processo: diversi funzionari sarebbero stati assunti dal Comune di Parigi nel periodo in cui Chirac ne era a capo ma poi avrebbero in realtà lavorato per l'Rpr. L’ex Presidente francese, interrogato dai giudici, rischia di essere condannato per ricettazione di fondi pubblici e abuso di potere. Neanche l’allora primo ministro Dominique de Villepin sembra cavarsela molto bene: viene indagato per la vicenda Clearstream, il falso dossier che doveva calunniare il troppo aspirante presidente Nicolas Sarkozy. Villepin è sospettato di aver tentato di incastrare il rivale in uno scandalo finanziario per screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica durante la corsa alle presidenziali. Il domicilio e i suoi uffici di Parigi vengono perquisiti a fine luglio 2007 e gli viene vietato di incontrare le altre persone implicate nel caso Clearstream, come Jacques Chirac che si è già rifiutato di testimoniare davanti al giudice «su fatti avvenuti o appresi» durante il suo mandato.


Il curriculum del Cavaliere

In Italia Silvio Berlusconi vanta un ricco carnet di processi per le accuse più incredibili. Corruzione, legami con la mafia, finanziamento illegale ai partiti politici, evasione fiscale, tangenti alla Guardia di Finanza, falso in bilancio, traffico di droga. Tuttavia l’uomo più ricco d’Italia è sempre riuscito a cavarsela nonostante la gravità dei numerosi capi d’imputazione. La maggior parte dei casi riguardano la sua azienda Fininvest. Ripetutamente condannato in prima istanza, è sempre stato scagionato o in appello grazie alla prescrizione. Per tutelare i suoi interessi, durante il suo lungo passaggio a Palazzo Chigi, il Cavaliere ha fatto approvare diverse leggi ‘su misura’, come la depenalizzazione del falso in bilancio.

Favoritismo all’inglese

In Gran Bretagna Tony Blair è stato interrogato per ben tre volte consecutive dalla polizia in merito allo scandalo delle onorificenze concesse ai maggiori finanziatori del partito laburista in cambio di denaro. Nel luglio 2006 Lord Levy, tesoriere del partito laburista e amico intimo dell’ex inquilino di Downing Street, viene arrestato e subito dopo rilasciato sotto cauzione. Anche l’ex consigliere di Blair, Ruth Turner, viene interrogato da Scotland Yard. Tuttavia Blair ha sempre dichiarato di non aver agito illegalmente poiché non c’è nulla che vieta ai dirigenti politici di proporre al proprio partito dei candidati che hanno «concesso servizi al partito stesso».

Sussidi illegali in Polonia

Il vizio della corruzione non sembra risparmiare neanche l’Europa dell’Est, dove lo scorso luglio il leader del partito polacco populista Samoobrona (Autodifesa), Andrzep Lepper, viene silurato dal primo ministro Jaroslaw Kaczinski in seguito ad accuse di corruzione. Il dirigente di Samoobrona, anche ministro dell’Agricoltura, verrà coinvolto in un grande scandalo di tangenti. Il Ministero dell’Agricoltura, inoltre, avrebbe fatto beneficiare illegalmente alcune zone rurali di sussidi Ue. Ma al momento il coinvolgimento di Lepper non è stato ancora provato.

Una Commissione sotto il fuoco dei sospetti

Gli alti funzionari europei non sono da meno. Il 15 marzo 1999 la Commissione presieduta da Jacques Santer, si vede costretta a dimettersi collettivamente in seguito a delle affermazioni di frode riguardanti alcuni dei suoi membri, tra i quali la francese Edith Cresson e lo spagnolo Manuel Marin. Le critiche si concentravano sulla cattiva gestione della Commissione. L'11 luglio 2006, Edith Cresson viene riconosciuta colpevole di favoritismo dalla Corte Europea di Giustizia.

FONTE: http://www.cafebabel.com/

USA/CLIMA, IL DOSSIER OSCURATO

1 Febbraio 2007 New York.
Poco piu’ di un anno fa, Drew Shindell, uno scienziato che lavora alla Nasa, ha completato uno studio sul cambiamento del clima in Antartica e lo ha intitolato ‘’La fredda Antartica potrebbe riscaldarsi rapidamente in questo secolo’’. Ma quanto lo studio e’ arrivato alla Casa Bianca, il suo titolo e’ improvvisamente diventato ‘’ Gli scienziati studiano i cambiamentio di clima in Antartica. ‘’Ho pensato che , con un titolo cosi’ annacquato, il rapporto non avrebbe interessato nessuno’’, si e’ lamentato martedi sera Scindell in una deposizione di fronte al Congresso. A preoccuparsi che la presentazione dello studio non fosse troppo esplicita era stato, molto probabilmente, Phil Cooney, un ex lobbista per l’industria petrolifera che George Bush aveva chiamato a fare il capo dello staff al White House Council on Environmental Quality e che ora lavora per la Exxon. A Parigi, giusto oggi, l’Intergovernmental Panel on Climate Charge pubblichera’ il rapporto compilato da oltre duemila scienziati di tutto il mondo e che concludera’ che il 90 per cento del riscaldamento del clima e’ dovuto alle emissioni di ossido di carbonio. In Africa, il nuovo segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha discusso ieri con Achim Steiner, capo dell’UN Environment Programm, l’organizzazione a settembre di summit speciale sui cambiamenti del clima al Palazzo di Vetro. In alcuni stati americani, come la California, le misure per limitare le emossioni dei gas responsabili dell’’’effetto serra’’ sono gia’ diventate o stanno per diventare leggi. Perfino Bush, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, e’ stato per la prima volta costretto ad ammettere che esiste un problema di ‘’global warming’’. Di fronte alle notizie che testimoniano la preoccupazione di tutto il mondo per un fenomeno che mette tutti in pericolo, l’immagine che emerge da Washington e’ per molti versi inquietante.Nelle udienze che si sono svolte martedi di fronte alla commissione per la riforma del governo della camera, diretta dal democratico Henry Waxman, e’ emersa infatti l’immagine di una Casa Bianca che di cambiamenti di clima per anni non ha voluto sentir parlare e che non ha avuto nessuno scrupolo a censurare, in maniera piu’ o meno esplicita, le conclusioni dei ricercatori che lavorano per il governo. Nei rapporti scientifici, e soprattutto nelle versioni degli stessi rapporti destinate ad essere divulgate sulla stampa, le parole, ‘’effetto serra’’ e riscaldamento della terra scomparivano quasi sempre, per lasciare il posto a formule blande e dubitative. Quando l’Union of Concerned scientists ha fatto un’inchiesta e intervistato circa 1600 dei suoi membri, i risultati sono stati illuminanti. 150 dei circa 279 ricercatori che hanno risposto al sondaggio hanno lamentato le pesanti intrusioni dei politici nei risultati del loro lavoro. ‘’I collaboratori dell’amministrazione hanno mostrato un interesse crescente nel controllare il flusso delle informazioni che riguardavano i cambiamenti di clima, in modo da minimizzare la percezione che la comunita’ scientidfica non fosse d’accordo con la linea politica dell’amministrazione sull’argomento’’, ha testimoniato di fronte ai legislatori Rick Piltz, un ex funzionario dell’US Climate Change Science Program. Stufo delle continue censure, Piltz ha sbattuto la porta e creato un gruppo per controllare il comportamento del governo . ‘’Se uno studioso sa che quello che scrive dovra’ passare al vaglio della Casa Bianca’’, ha raccontato, ‘’finisce inevitabilmente per autocensurarsi’’. Le devastanti testimonianze degli scienziati, e’ ovvio, non dipingono soltanto un’amministrazione impegnata a difendere con ogni mezzo la sua decisione di non sottoscrivere gli accordi di Kyoto e di non imporre alle industrie americane una limitazione delle emissioni, ma anche un’amministrazione pronta a celare e offuscare le conclusioni dei suoi stessi dipendenti. Adesso, anche per Bush i tempi sono in parte cambiati. Nancy Pelosi ha gia’ in preparazione tre nuovi progetti di legge sui cambiamenti di clima. E malgrado la resistenza della Casa Bianca, il Council on Environment Quality ha dovuto promettere a Waxman che migliaia di pagine di documenti saranno consegnate. A Bush, e’ ovvio, resta sempre il diritto di veto. ‘’Senza una seria azione per ridare integrita’ alla scienza del governo federale, non saremo pronti ad affrontare le sfide che ci aspettano’’, gli ha pero’ricordato la studiosa Francesca Grifo della Union of Concerned Scientists.

Gianna Pontecorboli

FONTE: http://www.lettera22.it/

domenica 23 settembre 2007

L'ERA DEL PETROLIO POTRA' MAI FINIRE?

Questa situazione crea problemi ai produttori di materie plastiche, alle aziende di trasporti ma non solo; pensiamo infatti a tutto il sistema economico che gira intorno al petrolio utilizzato, oltre che come combustibile e carburante, per realizzare i prodotti di plastica, il poliestere con cui si confezionano molti degli abiti che indossiamo, la moquette su cui camminiamo e poi sedie, computer, scatole, cerotti, ecc. ecc. La produzione, secondo la Association the Study of Peak Oil, è arrivata da tempo al culmine del potenziale produttivo o poco ci manca e ci stiamo ormai inevitabilmente avviando ad una crisi a livello mondiale. Crisi che dovrebbe perlomeno destare una certa preoccupazione da parte dei nostri governanti e che, nell'attuale situazione si necessiterebbe di un'accurata ricerca per trovare metodi per produrre energia in maniera alternativa. Le proposte conosciute ai più sono solo l'idrogeno, il biodiesel, l'energia solare o eolica che, a nostro avviso, non possono essere l'unica risposta alla crescente domanda di energia a livello mondiale. In particolare, destano non poca preoccupazione le conseguenze dal punto di vista geopolitica: il mondo si trova ad essere sempre più dipendente dal medioriente petrolifero-, un'area politicamente instabile che potrebbe creare non pochi problemi.
Bisognerebbe riprogettare le nostre città, la nostra agricoltura ed il nostro modo di vivere, ma questo non è possibile senza una imponente pressione politica mondiale. Ognuno di noi può dare il suo contributo ed impegnarsi per migliorare la situazione attuale: come per esempio ridurre i consumi di energia elettrica ed incoraggiare gli altri a fare altrettanto, usare l'auto solo quando sia necessario, passare a fonti energetiche rinnovabili. Acquistare prodotti locali per limitare il consumo dovuto a trasporti. Dobbiamo impegnarci a cambiare lo stile di vita a cui siamo troppo bene abituati…
Però è molto più facile che i consumatori scendano in piazza per consumare di più piuttosto che si facciano delle manifestazioni a favore del risparmio energetico e della economizzazione. Anzi, i dati degli ultimi sondaggi rivelano che la domanda tende ad aumentare e che sia maggiore dell'offerta, quindi crea inevitabilmente un aumento sempre maggiore del prezzo del petrolio.
Di tutto ciò non se ne occupa nessun media, viene data la notizia dell'aumento del petrolio o della benzina, ma molto timidamente, tanto ormai non ci fa più caso nessuno. I giornalisti non approfondiscono più la notizia… forse perché non fa più audience? Operai del settore petrolifero sono stati uccisi in Arabia Saudita, oleodotti e piattaforme sono stati distrutti in Iraq, la Shell ha smarrito il 23% delle sue riserve e ovviamente, le compagnie petrolifere stanno ottenendo profitti record. Ecco perché chi ha il dovere di fare qualcosa non lo fa, per pura e semplice avidità, fame di potere, interessi economici dei grandi produttori di petrolio, come il presidente degli Stati Uniti d'America. Soltanto che il petrolio non è una fonte inesauribile, ovvero non si rinnova, non durerà in eterno quindi per il bene comune ci auguriamo che si mettano da parte gli interessi disonesti e che si faccia qualcosa di veramente concreto in merito.


Fonte: www.topsecret.naturalia.net

L'EQUITA'

L'equità è una situazione conforme a principi di giustizia, in particolare nel confronto tra individui in condizioni analoghe (equità orizzontale) o in condizioni diverse (equità verticale). Nell'uso corrente equità è usato come sinonimo di "giusto" (ad es. giudizio equo, compenso equo, ecc.), ma più precisamente l'equità indica un giudizio comparativo, vale a dire una situazione "giusta" nel confronto tra due individui (o gruppi, società, etc.). Se si confrontano due individui considerati analoghi per tutti gli aspetti rilevanti della situazione, si parla di equità orizzontale (ad es. è equo lo stesso compenso per le stesse prestazioni). Se si confrontano due individui considerati diversi nella situazione data, si parla di equità verticale (ad es. è equo un compenso maggiore per uno sforzo maggiore). L'equità nell'ambito della società è una questione estremamente complessa e al tempo stesso molto sentita, che tocca il campo economico e politico, ma che ha radici nei fondamenti filosofici, religiosi o ideologici di una data società. Il sistema politico in genere è chiamato ha realizzare i criteri di equità che emergono dalla società, ma questo compito non è sempre agevole. Nei sistemi politici democratici si è affermato il principio che è equo ciò che è conforme alle "regole del gioco", una volta che tali regole sono state fissate prima che una data situazione si presenti. Ma questo principio si limita a spostare il problema al campo delle regole, vale a dire alla questione se un determinato "gioco" sociale sia retto da regole eque e quindi accettabili prima di parteciparvi. Il problema dell'equità è particolarmente acuto nel campo economico, e riguarda soprattutto la distribuzione del reddito e/o della ricchezza , ossia la cosiddetta equità distributiva. I paesi nei quali si crea una forte disuguaglianza tra chi ha molto e chi ha poco reddito (ricchezza) sono giudicati iniqui. Allo stesso modo, sono giudicate inique le enormi disparità economiche nel mondo. Sono giudizi corretti, e come intervenire?
Il grado di equità di un sistema economico è una questione molto complessa e controversa, per due principali ragioni tra molte. Secondo principi generalmente accettati, il giudizio di equità deve essere riferito alle "regole del gioco" del sistema stesso. Il caso emblematico è quello del "gioco economico" che è oggi più diffuso al mondo, cioè il mercato. Il mercato, per sua natura, è fondato sul meccanismo della concorrenza, attraverso la quale viene stimolato l'interesse personale a dare il massimo di sé per ottenere un beneficio individuale. Se questa è la prima regola del gioco, come sostiene ad esempio il filosofo americano Robert Nozick (Stati Uniti, 1939-2003), allora bisogna accettare che i premi individuali alla fine del gioco possano essere anche molto diversi. Quindi il mercato non può garantire l'uguaglianza delle condizioni economiche, ma non può di per sé essere giudicato iniquo. Questa visione mette l'accento sulla equità del processo, cioè è iniqua solo la ricchezza accumulata violando le regole del gioco. Siccome è generalmente accettato che l'equità deve essere sia orizzontale (ad es. lo stesso compenso per lo stesso sforzo) sia verticale (ad es. maggior compenso per uno sforzo maggiore), le differenze economiche tra individui sono inique solo se non sono giustificate da differenze di merito. Questa visione, ricollegandosi al tema delle regole del gioco, sottolinea che il principio di equità richiede la uguaglianza delle condizioni di partenza, ma non quella delle condizioni di arrivo.
Il criterio dell'equità ha avuto e ha una influenza profonda sulla definizione dei compiti di politica economica dei governi. Il liberismo classico del XIX secolo ha prodotto l'idea dell’equità di processo, e quindi che il compito del governo sia solo quello di garantire che la competizione economica si svolga in maniera corretta (ad es. impedendo il formarsi di monopoli e concentrazioni di potere economico). Le correzioni successive di tipo riformista e socialdemocratico hanno introdotto ulteriori e più ampi criteri dell'intervento pubblico, come l' uguaglianza dei punti di partenza, affinché tutti siano nelle condizioni migliori per partecipare alla competizione economica; le politiche redistributive, cioè a favore di una maggiore uguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza, quando i livelli inferiori risultano socialmente intollerabili o lesivi della dignità umana.


Fonte: www.utopie.it/

IL BENESSERE

Il concetto di benessere ha una posizione di primo piano nel rapporto tra economia e etica. Si tratta di un concetto molto complesso e controverso, sia sul piano teorico, sia su quello della sua misurazione, sia su quello dei compiti delle autorità politiche. Esiste un consenso pressoché generale nella cultura del mondo occidentale moderna nell'idea che il fine ultimo, e pertanto il metro di giudizio, dell'economia, della politica e dell’organizzazione sociale sia il benessere di ogni individuo e della società. La Costituzione americana, stilata alla fine del XVIII secolo, dichiara che i cittadini hanno "diritto alla felicità", presupponendo quindi che lo Stato abbia il dovere di realizzare questo diritto o di fare in modo che i cittadini possano realizzarlo. Va ricordato che questa idea è nata con la rivoluzione filosofica (illuminismo) ed economico-politica del XVIII secolo, e che essa rappresenta una svolta radicale rispetto al pensiero dominante nei secoli precedenti. Secoli nei quali il compito richiesto allo Stato e al Sovrano era stato quello di realizzare un ordine sociale giusto, secondo criteri fissati da princìpi assoluti, in gran parte di natura teologica, totalmente indipendenti dai valori degli individui. Al contrario, il criterio del benessere presuppone la centralità dell'individuo e dei suoi valori soggettivi. Sul piano teorico, vi sono quattro questioni fondamentali:* che cosa determina il benessere individuale (problema del contenuto del benessere);* chi, e con quali mezzi, può o deve mettere ciascuna persona nelle condizioni di ottenere ciò che le crea benessere;* quali limiti possono essere imposti alla ricerca del benessere individuale;* quale relazione esiste tra il benessere del singolo e quello della società.
La ricerca della soluzione di questi quesiti occupa il pensiero filosofico, economico e politico degli ultimi due secoli. La loro complessità nasce dal presupposto stesso della moderna teoria del benessere, vale a dire la centralità dei valori soggettivi dell'individuo. Se il giudice ultimo di ciò che è bene per sé è l'individuo stesso, come possono altri individui, e con quale diritto, decidere che cosa determina il benessere individuale? E come è possibile confrontare il benessere di individui diversi, che hanno preferenze e valori diversi? Per esempio, nel decennio 1970-80 alcuni studiosi, nel proposito di rispettare la dimensione strettamente soggettiva del benessere, hanno criticato radicalmente l'uso sistematico del contenuto del benessere occidentale come metro di valutazione e di azione per i paesi delle altre parti del mondo.
Il problema di quali siano i mezzi più idonei per la realizzazione del benessere è altrettanto complesso e controverso. La teoria liberista intende dimostrare che il sistema di mercato è il mezzo più idoneo, in quanto perfettamente coerente con il principio soggettivista: date le risorse economiche a disposizione di ciascun individuo, il mercato consente a ciascuno di realizzare il proprio benessere personale producendo, comprando e vendendo i beni preferiti [Vilfredo Pareto (Italia, 1848-1923), Léon Walras (Francia, 1834-1910), Kenneth J. Arrow (Stati Uniti, 1921)]. La forza teorica di questo risultato sta nel fatto che esso prescinde totalmente da giudizi di valore esterni all'individuo, e per questa via esclude la legittimità di interventi o di norme nella sfera del benessere da parte di autorità anteposte all'individuo come lo Stato o la Chiesa. Tuttavia sia in sede teorica che storica sono emersi numerosi fattori che possono impedire al mercato di conseguire adeguati livelli di benessere individuale e sociale, rendendo necessari interventi correttivi o diverse forme organizzative della vita economica. La stessa teoria liberista ammette che la distribuzione dei beni realizzata dal mercato può non essere conforme a giudizi di valore extra soggettivi comunque presenti nella società, come quello di equità (ad es. mantenere differenze tollerabili tra ricchi e poveri, garantire a tutti capacità e opportunità) oppure può mancare di fornire beni di natura collettiva come i beni pubblici (ad es. sicurezza) o i beni meritori (ad es. istruzione, salute, ambiente). Da questo punto di vista, la realizzazione del benessere richiede che il mercato sia affiancato o sostituito da altri strumenti, tra cui tornano in campo norme e interventi dei poteri pubblici [Amartya Sen (India, 1933), Joseph E. Stiglitz (Stati Uniti, 1943)].
Nessuno dei criteri di benessere disponibili è pienamente soddisfacente o esente da critiche. Tuttavia va sottolineato che non è pensabile di poter fare a meno di un criterio di valutazione dei sistemi economici (vedi sistema economico) e delle politiche economiche. Sul piano operativo e degli interventi a favore dello sviluppo sono stati elaborati principalmente tre criteri di misura del benessere:* i criteri quantitativi effettivi, che presuppongono che il benessere dipenda essenzialmente dalla quantità di beni e servizi effettivamente utilizzati da un individuo (ad es. il consumo e i bisogni primari);* intendono misurare i mezzi che un individuo ha a disposizione per realizzare il proprio benessere, senza entrare nel merito di come l'individuo impiega questi mezzi (ad es. il reddito o la ricchezza ;* i criteri qualitativi, i quali cercano di allargare la valutazione del benessere ad aspetti non solo economico-quantitativi (ad es. capacità e opportunità, e sviluppo umano);* i criteri relazionali, i quali prendono in considerazione la posizione dell'individuo nella società e non solo il suo benessere individuale assoluto (ad es. equità).

ECONOMIA ED ETICA

L’economia, diversamente da altre scienze, è legata sia alla teoria della razionalità sia all’etica. Essendo l’etica rilevante per l’economia è difficile tenere separati i problemi metodologici che hanno per argomento il carattere dell’economia dai problemi valutativi che riguardano le scelte individuali e le loro condizioni e conseguenze. In una visione ortodossa, l’economia è una scienza puramente positiva nettamente distinta dalla politica e dall’etica e l’economia normativa non diviene altro che l’applicazione dell’economia positiva all’esplorazione di problemi che sono d’immediata rilevanza valutativa. In realtà è difficile fare certe distinzioni l’economista non può essere estraneo alla morale e utilizzare l’economia come semplice tecnica.
Gli economisti, per poter fornire strumenti tecnici alla politica, devono collegare la teoria economica ai concetti morali che sono impiegati dai politici. Per far questo devono essere in grado di orientarsi in tematiche quali i bisogni, l’equità, le opportunità, la libertà e i diritti. L’economia positiva potrebbe essere separata dalle proposizioni valutative, ma gli economisti positivi sono influenzati dai propri valori morali. Nella teoria della razionalità le scelte di un soggetto sono determinate dalle sue preferenze, ma ciò non esclude che le preferenze siano orientate da principi morali. Il carattere dell’economia normativa è determinato sia dall’economia positiva che dalla razionalità, ma è errato identificare il benessere unicamente con la soddisfazione delle preferenze data la difficoltà di dare giudizi di valore secondo i quali si ritiene che persone che sono in situazioni simili godono dello stesso benessere.
Secondo le teorie anarco-capitalistiche i diritti naturali (cioè diritti che non dipendono dalle loro conseguenze) assicurano l’autonomia individuale. La giustizia consiste nel rispettare i diritti. Secondo Nozick un risultato è giusto solo se nasce dalla giusta acquisizione di ciò che si possedeva o dal trasferimento volontario di ciò che si possedeva giustamente. La giusta acquisizione è quella che non viola alcun diritto, e i trasferimenti sono volontari solo nel caso che nessuna limitazione delle scelte individuali nasca da violazione dei diritti: “La giustizia è una questione di titolo valido e dipende dalla storia reale, non dal quadro dei risultati che dalla storia risulta”. Solo il bisogno di rettificare ingiustizie passate giustifica la ridistribuzione. Le considerazioni riguardanti il benessere non giustificano mai alcuna interferenza con le libertà individuali, poiché la funzione dei diritti per Nozick non è di massimizzare il benessere, ma di assicurare la libertà e di permettere agli individui di perseguire i loro progetti personali.


BIRMANIA: LA RIVOLTA DEI MONACI

Lo scrive il sito della rivista Irrawady. Incidenti tra esponenti del clero buddista e le forze dell'ordine a Sittwe, nell stato orientale dell'Arakan (vedi mappa). Manifestazioni anche a Pegu, Rangoon e altre zone del paese.
Monaci in rivolta a Sittwe, nell'Arakan State dispersi con i gas. A Pegu almeno 1500 monaci hanno preso parte a una manifetazioen anti governativa. A Botataung Township, Rangoon diverse centinaia di monaci hanno marciato da diversi monasteri sino alla pagoda di Sule blindata dalle forze di sicurezza. Altre manifestazioni in altre zone del paese. Gli unici incidenti di cui si notizia sono quelli di Sittwe.Testimoni oculari citati dall'emittente britannica Bbc avrebbero disperso con lacrimogeni l'ennesima manifestazione di monaci nella città di Sittwe (già Akyab), capoluogo dello Stato costiero di Arakan, nella parte occidentale della Birmania. Sittwe, una cittadina di poco meno di 200mila abitanti, è situata su un'isola alla confluenza dei fiumi Kaladan, Myu e Lemyo.Diversi giorni fa altri incidenti con i monaci si erano verificati a Pakokku, 500 chilometri a Nord di Rangoon, dove centinaia di monaci buddisti hanno preso in ostaggio nel loro monastero una ventina di membri delle forze di sicurezza birmane in seguito alla repressione di una protesta contro la giunta militare per l'aumento dei prezzi.

Il sito della rivista Irrawady
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Fonte: www.lettera22.it

CONFLITTI DIMENTICATI 3: BIRMANIA

UN PO' DI STORIA: La Birmania, ex colonia britannica, ottenne l'indipendenza il 4 gennaio 1948, costituendosi come Unione Federale Birmana e il 18 giugno 1989 prese il nome di Myanmar. Il generale Ne Win, il 2 marzo 1962 con un colpo di stato prese il potere, instaurando una dittatura militare. Nel 1988, dopo aver duramente represso le manifestazioni contro il governo, lasciando sul terreno più di tremila morti, una nuova giunta militare assunse il potere. Il Consiglio per il Ripristino dell'Ordine e della Legge dello Stato (SLORC) diede inizio a una durissima repressione, attuata per mezzo di torture, esecuzioni sommarie e arresti di massa contro gli attivisti politici. Due anni dopo indisse libere elezioni per la formazione di un'Assemblea costituente. La schiacciante vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), che riuscì a ottenere ben 392 seggi su 485, indusse però i militari a invalidare le elezioni e a mettere fuori legge i partiti e i movimenti d'opposizione, con il conseguente arresto di tutti i dirigenti della Lnd. La leader della Lega Aung San Suu Kyi, l'anno successivo fu anch'essa arrestata e quindi costretta per sei anni agli arresti domiciliari. Per la sua strenua lotta contro il regime militare di Yangon, nel 1991 ottenne il premio Nobel per la pace. Il paese è allo sbando, sconvolto da 50 anni di conflitti interni, sia etnici che politici. I primi riguardano i movimenti indipendentisti delle etnie minoritarie Karen e Shan e Wa, contro cui il governo combatte commettendo genocidi e deportazioni di massa. La posta in palio qui è il controllo dei territori al confine con la Thailandia, ricchi di piantagioni d'oppio, e il controllo del narcotraffico. Solo dal 1996, quando la lotta si è intensificata, si contano migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati in Thailandia e Bangladesh. Drammatico il problema delle mine anti-uomo disseminate nelle zone di conflitto. Frequenti anche gli scontri al confine tra gli eserciti di Birmania e Thailandia, che accusa il governo di Yangon di essere pienamente responsabile del massiccio traffico di droga verso il proprio territorio. Il 6 maggio scorso la cinquantaseienne Aung San Suu Kyi, dopo 20 mesi di arresti domiciliari è stata rilasciata, ma non sarà facile ottenere un sostanziale cambiamento politico in tempi brevi. Le confuse modalità della sua liberazione indicano che nessun accordo, per quanto riguarda la sua libertà di movimento e le attività politiche della sua Lnd, è stato firmato col governo militare del suo paese e questo potrebbe costituire un problema in un immediato futuro. Inoltre, l'attuale atteggiamento del regime non inspira fiducia sul suo impegno ad avviare una fase di transizione, che conduca il paese verso la democrazia. Molti birmani in esilio sono convinti che il governo non abbia intenzione di dividere il potere e che il rilascio di Suu Kyi sia legato al ripristino degli aiuti stranieri, necessari per risollevare l'economia del paese, danneggiata dalle pesanti sanzioni inflitte da parte della comunità internazionale a causa delle continue violazioni dei diritti umani e della partecipazione al traffico mondiale di eroina (di cui la Birmania è uno dei primi produttori mondiali). Non poche e gravi insidie si annunciano per l'opposizione, logorata e sconfitta da arresti e minacce, sfociate in una diaspora degli esponenti più impegnati divisi tra dubbi e contrasti. Suu Kyi, dopo che la giunta militare birmana le ha permesso di riprendere le sue attività politiche, nella sua prima apparizione in pubblico, ha indicato, tra le priorità, la liberazione di 800 prigionieri politici dell'Lnd, tra cui 17 parlamentari eletti nel 1990, anno in cui vinse le elezioni in Birmania, ma i militari non le hanno mai concesso di governare. Suu Kyi, anche quando fu liberata nel 1995, dopo i sei anni di arresti domiciliari nutriva grandi speranze di portare la Birmania verso un processo di democratizzazione; presto però, andarono tutte deluse: le fu impedito di lasciare la capitale e il suo partito fu dichiarato fuorilegge. Stavolta potrebbe essere diverso, adesso, a differenza del 1995, c'è un processo politico in atto e la leader del Lnd è nel bel mezzo di questo processo e fino a quando ci resterà avrà bisogno dei militari, come loro hanno bisogno di lei. Gli osservatori ritengono che Suu Kyi ha accettato di negoziare con i generali perché non aveva altro mezzo per contrastare il loro potere, dal momento che tengono sotto controllo la popolazione da 14 anni, con uno dei più grossi eserciti dell'Asia e un'efficiente polizia segreta. I birmani hanno una grande fiducia in Suu Kyi, ma consapevoli che il processo di riconciliazione non sarà breve, temono che anche stavolta si tratti di una falsa apertura da parte di uno dei regimi più repressivi dell'Asia.
Marco Cochi



Nella speranza che un giorno la guerra finisca